sabato 15 gennaio 2011

OFF THE MAP: medici senza camicie



Invece di chiamarli Medici Senza Frontiere, il New York Times ha scherzato chiamandoli Medici Senza Camicie: Off the Map, il telefilm che ha appena debuttato sull’americana ABC, è dopotutto prodotto da Shonda Rhimes, la nota autrice di Grey’s Anatomy, ed è ideato da una delle sceneggiatrici di quest’ultima serie, Jenna Bans. Ma Off the Map Grey’s Anatomy non è, nemmeno in quell’aspetto, anche se un po’ di fanservice indubbiamente c’è. Magari per loro. Ne esce una serie sciacquetta, insipida e finta.

Siamo da qualche parte nel sud dell’America – l’ambientazione è volutamente vaga, ma le riprese, mozzafiato, sono fatte alle Hawaii – e nel mezzo della giungla alcuni medici americani lavorano nella clinica Cruz de Sur a Ciudad de las Estrellas. Il pilot si apre come tre dei personaggi principali che osservano semi divertiti, quasi fosse un gioco, alcune persone che rischiano di affogare per essere state sbalzate fuori da un gommone, prima di buttarsi ad aiutarli. Vorrebbe essere vagamente umoristico, ma ne esce sbruffone e basta. Sono il dottor Ben Keeton (Martin Henderson), il fondatore dell’avamposto medico, il dottor Otis Cole (Jason George, Sunset Beach, Eastwick) e la dottoressa il cui nome, Zitajalehrena Alvarez, risulta impronunciabile un po’ per tutti per cui finiscono per chiamarla "Zee". È l’unica non americana e l’unica a guardare con un po’ di sufficienza l’ennesimo americano arrivato a salvare il mondo.


Le vicende partono con l’arrivo alla clinica di altri tre giovani che cercano qui un nuovo inizio, lasciandosi ciascuno una dolorosa vicenda alle spalle: Lily Brenner (Caroline Dhavernas, Wanderfalls) che ha perso il fidanzato; Tommy (Zach Gilford, Friday Night Lights) un chirurgo plastico che dice di aver perso la sua famiglia per orgoglio; e Mina (Mamie Gummer), che per eccessiva stanchezza dovuta a superlavoro non si è accorta di una “zebra della medicina”, un caso di meningite batterica che lei ha scambiato per comune influenza, con la conseguenza che un bambino è morto e lei si è vista sbattere fuori dal suo corso di specializzazione. Le condizioni in cui lavoreranno, vengono subito informati, non sono ideali: si è nel Terzo Mondo ed è come trovarsi negli anni ’50, bisogna usare il cervello e l’istinto, e il più delle volte non ci sono farmaci perché dipendono dalle donazioni: Ben tira un pugno a un paziente che si è infilato la coda di un enorme pesce in un piede, come forma di distrazione e anestesia; sempre Ben, in mancanza di fluidi, pianta tutto nel bel mezzo di un’operazione per arrampicarsi su una palma e prendere delle noci di cocco il cui latte viene poi utilizzato per una trasfusione, come si faceva durante la Seconda Guerra Mondiale, informa; un inalatore per l’asma lo ha portato da casa Mina, e come pagamento si vede portare dalla riconoscente paziente una gallina…

Sono subito buttati nella mischia: salvare e operare un turista americano che si è impigliato sul cavo di una funivia (Lily); convincere un padre a non rifiutare i farmaci per i familiari che stanno morendo di tubercolosi (Tommy), anche grazie alla mediazione di un ragazzo, Charlie (Jonathan Castellanos) che si adopera come traduttore; aiutare una donna asmatica (Mina)… Ho apprezzato che, nel pilot, le vicende più d’azione siano state date a una donna e quelle più di famiglia a un uomo: penso che in passato difficilmente sarebbe accaduto. Le storie però sono come tante, non troppo ben scritte, nemmeno nel dialogo, e i personaggi sono sufficientemente piatti e anonimi. Tutto suona finto, forzato, messo lì ad hoc. Anche lì dove gli elementi ci sarebbero  - vedi la storia del turista che vuole spargere le ceneri della moglie in un lago che sembra accendersi di luci, sempre nel pilot - alla fine mancano la poesia e l’ispirazione.

E la questione linguistica è molto irritante. Il tema della incomunicabilità per il fatto di parlare idiomi diversi e il riuscire a superarla pur non avendo la competenza linguistica necessaria è stato un tema ricorrente anche in Grey’s Anatomy, e con la società multi-culturale americana è un tema che viene affrontato anche troppo poco, ma un conto è Seattle, dove aspettarsi che la gente parli inglese è anche ragionevole. In un Paese in cui la lingua principale è lo spagnolo mostrare irritazione per il fatto di non venire capiti è ignorante e immaginare che una dottoressa che tanto ha studiato e che decide di andare all’estero non abbia nemmeno il buon senso di chiedere a qualcuno come si dice in spagnolo “casa”, una parola che continua a ripetere alla paziente che vuol dimettere, è risibile e alla fine indisponente. La richiesta implicita sembra essere quella di chiederci di identificarci con la frustrazione di questi giovani, e non ci si riesce. Potrebbe essere l’occasione invece di affrontare il problema degli americani che si aspettano che gli altri parlino la loro lingua e che non fanno alcuno sforzo per imparare quella degli altri, ma non è questo che si sta facendo. Apprezzo che provino ad ambientare un telefilm in una parte del mondo diversa dagli Stati Uniti, cosa tradizionalmente molto rischiosa e di scarso successo, oltreoceano. Vorrei però che la ABC avesse deciso di ammortizzare i costi delle strutture impiantate alle Hawaii per girare Lost, con telefilm con una maggiore personalità del dimenticabile Off the Map.


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