venerdì 21 ottobre 2011

BOSS: una serie politica per Kelsey Grammer


È già stata confermata per una seconda stagione, ancor prima della partenza, la serie politica Boss, che debutta oggi sull’americana Starz. Protagonista è un fittizio sindaco della Chicago contemporanea, Tom Kane (Kelsey Grammer, Frasier), che siede come un ragno al centro della ragnatela di potere della sua città, per prendere a prestito le parole che il sito ufficiale usa per definirlo. Il suo credo, come spiega al giovane ambizioso ex-avvocato di umili origini Ben Zajac (Jeff Hephner, Hellcats), è che la gente voglia essere guidata, che voglia che ci sia qualcuno a dirimere le proprie dispute, a negoziare e punire i crimini al post suo, a distribuire posti di lavoro, a vedere premiata la propria lealtà e, in un tacito contratto, in cambio dà potere a chi si assume questo compito. Lui è potente e senza scrupoli, è il boss del titolo, e sa di esserlo.  Solo, nessuno ne è ancora a conoscenza, ma gli è stata diagnosticata una malattia neurodegenerativa che nel giro di qualche anno lo porterà all’atrofia delle regioni frontali e temporali del cervello, e a un lento, inesorabile, devastante disfacimento delle sue capacità mentali e fisiche e, alla fine, alla morte.
Tom ha un matrimonio di facciata con Meredith (Connie Nielsen), una donna formalmente impeccabile impegnata a migliorare il sistema scolastico cittadino davanti alle telecamere, ma a cui importa sopra ogni casa di come le cose appaiono. La figlia con possibili problemi di droga Emma (Hannah Ware) è rettore della First Episcopal Church, la chiesa episcopale per la quale dirige anche una clinica sanitaria per l’assistenza ai poveri, attività che la porta a conoscere Darius Morrison (Rotimi Akinosho), un giovane che vuole sfuggire dai confini della periferia malfamata dove abita. L’assistente personale di Kane, Kitty O’Neil (Kathleen Robertson, Beverly Hills, 90210), è una donna efficientissima; Ezra Stone (Martin Donovan) è il suo brillante consigliere anziano; McCall Cullen (Francis Guinam) è il volubile governatore dell’Illinois che apparentemente Kane appoggia per la rielezione, ma che è consapevole che è solo una finta. Un giornalista politico che lavora per The Sentinel, Sam Miller (Troy Garrity), vuole far luce sulla figura di Kane: bisogno di arrestare la corruzione e necessità di qualcuno con muscolatura morale, spina dorsale, integrità e operosità sono parole di cui il sindaco si riempie solo la bocca.
Ideata dall’autore iraniano Farhad Safinia, che ha scritto un pilot che porta la prima regia televisiva di Gus Van Sant (premio oscar per Good Will Hunting e Milk), dalla prima puntata la serie è apparsa solida. Ci sono stati momenti di scrittura davvero pregnanti (la conversazione privata di Meredith, o il fulminante scambio di battute fra Kane a la sua assistente mentre lui è steso al buio ad esempio, o ancora l’intimidazione della sua dottoressa in auto) e momenti di regia che hanno spiccato (l’uso ripetuto del primissimo piano, il montaggio a flash nella scena di sesso fra Kitty e Ben, l’elisione di alcuni edifici della città per rendere visiva la spiegazione di Kane a Ben), ma la sensazione di fondo che è rimasta è che questa sia particolarmente una serie in cui il pilot è solo la radice di qualcosa che si costruisce sul serio solo nell’arco degli otto episodi previsti. E per ora un difetto grande emerge: manca chiaroscuro – a fronte di una sotterranea, quando non esplicita brutalità e ipocrisia, non si scorge alcun idealismo, alcuna nota positiva.
È un incrocio fra The West Wing e I Soprano, con echi di Boardwalk Empire e Kings (un leader autocrate e facoltà mentali che cominciano a vacillare). Il cognome pesante che porta il personaggio, Kane, non può non richiamare alla mente Citizen Kane – Quarto Potere, e guardarlo mi ha senz’altro richiamato la lettura di Tutti gli uomini del re, di Robert Sean Warren (con le eventuali versioni cinematografiche). Mira anche a un certo realismo alla The Wire, come si può intuire sin dalla sigla d’apertura. C’è Machiavelli e una concezione shakespeariana della politica, osservava lo stesso Grammer.
Ho lasciato una considerazione su quest’ultimo alla fine, di proposito. Siamo così tanto abituati a identificarlo con ruoli comici che vederlo in un ruolo drammatico è un’autentica sorpresa. L’interpretazione è davvero riuscita, intensa, credibile, autorevole e in qualche maniera minacciosa. Ho trovato coraggioso da parte sua decidere di fare una simile svolta a questo punto della sua carriera. Notare questo come una cosa audace, e vederlo per la prima volta in un contesto che fa della violenza parte del suo contenuto, mi ha fatto ripensare anche al suo coraggioso atteggiamento personale. Anni fa, ha ammesso pubblicamente di essere stato la vittima di violenza domestica da parte della moglie (qui c’è una clip in cui ne parla). Il tema è da sempre delicato e spinoso, in più quando si parla di violenza domestica si pensa di solito sempre alle donne come alle possibili vittime. Per gli uomini è ancora di più un tabù, nonostante le cifre rivelino che sia un fenomeno più esteso di quanto non si creda. Ho ammirato molto a suo tempo Grammer per averne parlato. È l’unico uomo che “conosco” che lo abbia fatto. Penso ci sia voluta molta forza. È una nota tangenziale, che non ha veramente a fare con il programma, ma a cui ho ripensato e che mi sento per questo di condividere.

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