lunedì 28 febbraio 2011

OSCAR 2011: i vincitori



Miglior film: Il discorso del re
Miglior film straniero: In a better world
Miglior film animato: Toy Story 3
Miglior regia: Tom Hooper (Il discorso del re)

Miglior attore: Colin Firth (Il discorso del re)
Miglior attrice: Natalie Portman (Black Swan)
Miglior attrice non protagonista: Melissa Leo, The fighter
Miglior attore non protagonista: Christian Bale, The Fighter

Miglior sceneggiatura - originale: David Seidler, Il discorso del re
Miglior sceneggiatura - adattatamento: Aaron Sorkin, The Social Network

Miglior documentario – lungometraggio: Inside Job
Miglior cortometraggio: God of Love
Miglior cortometraggio animato: The Lost Thing

Altri premi sono andati a Inception (effetti visivi, montaggio sonoro, mixaggio sonoro, fotografia), The Social Network (montaggio, colonna sonora), Alice in Wonderland (costumi, direzione artistica). The Wolfman (trucco), Toy Story 3 (canzone originale).

CUOCHI E FIAMME: rienergizzato dal nuovo conduttore



Cuochi e Fiamme (la7d, ore 18.35), la gara culinaria fra due dilettanti ogni volta diversi, li vede sempre impegnati in quattro prove diverse: manualità, in cui devono realizzare una creazione (ad esempio preparare delle orecchiette) in un paio di minuti; abilità, in cui in 10 minuti realizzano e impiattano una ricetta scelta fra due dal vincitore della prova precedente; creatività, in cui dimostrano la propria fantasia a partire da due ingredienti differenti da cui ancora una volta ne è scelto uno; presentazione, in cui mettono alla prova il proprio gusto estetico. Quello che è diverso nelle puntate ora in onda è il conduttore che qui, oltre a presentare in qualche “a lato” delle sinteticissime proposte culinarie, ha il ruolo di collante, di addensante, potremmo dire, di spiegare i passaggi in cucina, presentare gli ospiti, interagire con i giudici. Alessandro Borghese ha ora passato il testimone a Simone Rugiati, e la trasmissione ne è stata rienergizzata. Lo chef che qualcuno definisce il Jamie Oliver di casa nostra è più brioso, birbante e burlone, pizzica di più i concorrenti, spesso troppo concentrati per farsi distrarre dalle chiacchiere. Gran parte del talento è qui quello di improvvisare e, qui è evidente che l’esperienza dietro ai fornelli sa traslarla nelle relazioni umane. Più deludente il rinnovo dei giudici. Sono state confermate l’immancabile Fiammetta Fadda, critica enogastronomia di esperienza, capace di citare un Heston Blumenthal come fosse un vicino di casa, e la food blogger Chiara Maci, e invece è stato tristemente sostituito il gastronomo Leonardo Romanelli. Non avere gli stessi giudici di Chef per un giorno è anche bene, per varietà, ma perché scegliere Riccardo Rossi che è un attore che in mezza alla trasmissione ammette candido che non ha i mezzi per giudicare, anche se chi lo ha chiamato lo sapeva in anticipo?

sabato 26 febbraio 2011

THE A-TEAM: un finto scacciapensieri anni '80



FoxRetro manda in onda un vecchio classico degli anni ’80, l’A-Team, riproposto di recente anche n versione cinematografica. L’introduzione che si ripete agli inizi di ogni episodio spiega sinteticamente la premessa: “Nel 1972 gli uomini di un commando specializzato operante in Vietnam vennero ingiustamente condannati da un tribunale militare. Evasi da un carcere di massima sicurezza, si rifugiarono a Los Angeles vivendo in clandestinità. Sono tuttora ricercati, ma se avete un problema che nessuno può risolvere - e se riuscite a trovarli - forse potrete ingaggiare il famoso A-Team.” Si tratta di un gruppo di eroi un po’ sballati che la società rifiuta come tali: il colonnello “Hannibal” Smith (Gorge Peppard), la mente del gruppo, con un sigaro perennemente fra le labbra; “Sberla” (Dirk Benedict), il bel tenente; il capitano “Howling Mad” Murdock (Dwight Schultz), un po’ svitato e reduce di un ospedale psichiatrico; P.E., “Pessimo Elemento” (Mr. T), in originale BA, Bad Attitude, Brutto Atteggiamento, il sergente tutto muscoli. Accanto a loro Amy (Belina Culea), nelle prime stagioni, e contro di loro una serie di colonnelli che cercano di catturarli. Si tratta di piani ben ingegnati in cui i protagonisti aiutano a riparare i torti di qualche sventurato.

Ai suoi tempi è stata spesso considerata uno dei programmi più violenti che ci fossero. In effetti ci sono auto che fanno capriole e caseggiati che esplodono, elicotteri con voli rocamboleschi e mitra che non risparmiano pallottole. Si distrugge tutto e non si è davvero contenti se qualcosa non salta per aria con grande effetto coreografico. Nonostante questo non l’ho mai ritenuto veramente violento (come magari un Mike Hammer o un Hunter, per riprendere telefilm della stessa epoca). È una violenza un po’ alla cartone animato, fatta più per esibizione che altro. Nessuno si fa male in modo grave, ma in compenso i “cattivi” vengono puniti e assicurati alla giustizia. Il valore è sempre quello di riscattare gli oppressi, mai quello di provocare un danno ingiusto per il piacere di farlo. Se questo non giustifica la violenza nella vita reale, in questa serie non la rende minacciosa. E non si rischia di trivializzarla per il registro usato. Mai l’ho sentita negativa o pericolosa. Così come giocare agli autoscontri non rende più desiderosi di provocare veri incidenti d’auto a chi vi sale per un giro.

“The A-Team”, ideata da Frank Lupo e Stephen J. Cannell, non ha mai goduto di considerazione intellettuale, ma in un decennio in cui quasi tutti i protagonisti dei telefilm avevano nel proprio passato la guerra del Vitenam (uno per tutti Magnum P.I.), questa serie riesce anche con una certa disperata leggerezza a ricordarne le tragedie e a cantarne i tragici eroi attraverso strampalate figure vagamente farsesche. In fondo in fondo, dietro la formuletta, un finto scacciapensieri. 

venerdì 25 febbraio 2011

MR SUNSHINE: delude la creatura di Matthew Perry



Mi è sempre stato molto simpatico Matthew Perry (Friends, Studio 60 on the Sunset Strip) e un po’ mi dispiace che non mi sia piaciuto il suo nuovo Mr Sunshine, che sulla fiducia ha ricevuto l’ambita collocazione successiva al fantastico Modern Family sull’americana ABC. Perry interpreta Ben - il protagonista principale, un quarantenne concentrato solo su se stesso - ma è anche autore, insieme a Marc Firek e Alex Barnow, co-sceneggiatore e co-produttore esecutivo. Insomma, la sit-com è una sua creatura in tutto e per tutto.

Ben gestisce uno stadio, il Sunshine Center di San Diego, in California, dove si tengono eventi di vario tipo (sport, concerti, circo, politica…). Il suo capo è Crystal (Allison Janey, The West Wing) una donna vagamente razzista con la fobia dei clown che finge di non avere un figlio ormai adulto, Roman (Nate Torrence),  dolce ma inetto, per il quale Ben deve trovare un’occupazione. Direttore del marketing è la donna con cui va a letto, Alice (Andrea Anders, Better off Ted); uno dei manager, Alonzo (James Lesure), è un ex-giocatore di basketball sempre di buon umore; Bobert è un operaio (Jorge Garcia, Hugo di Lost) che gli risponde sempre di sì perché così gli era stato chiesto.

Tutto quello che si riesce a vedere sono persone di talento che hanno lavorato in molto di meglio, da Matthew Perry stesso in primis, al resto del cast, al regista Thomas Schlamme. Nel pilot non manca qualche momento divertente, come nella fascinazione che la segretaria di Ben trova per Roman, ma in generale è troppo sopra le righe e l’umorismo fatica ad andare a segno, anche lì dove il potenziale c’è, come nella presenza di un elefante sul set e nella battuta finale che gioca sull’espressione in inglese dell’“elefante nella stanza”. Con “c’è un elefante nella stanza” si intende che c’è una questione che tutti sanno essere presente, ma che tutti volontariamente ignorano. Qui viene resa reale dalla presenza un effettivo elefante, in carne e zanne. La battuta c’era ed era divertente, anche se forse non completamente inaspettata, ma la vis comica è stata mortificata da una scrittura e una regia che non sono stati capaci di renderla al meglio. Un po’ è il sunto di quello che non funziona. Io di certo non tornerò dopo il primo assaggio.

giovedì 24 febbraio 2011

POCOYO: un tenero bimbo di quattro anni



La storia vuole che il cartone animato per bimbi di età pre-scolare Pocoyo (RaiYoYo), ideata in Spagna da Guillermo García Carsí, Luis Gallego e David Cantolla, debba il suo nome alla figlia di quest’ultimo. La bimba di tre anni, nelle preghiere serali invece di dire “Eres niño como yo”, sei un bimbo come me, diceva "Eres niño poco yo ", come se fosse “sei un bimbo piccolo me”. E così, quel “piccolo me” è diventato Pocoyo.

 Il delizioso e divertente protagonista che porta quel nome è un bimbo vestito di blu chiaro, con un cappellino dello stesso colore che ha sempre 4 anni, anche quando li compie. Nelle due stagioni ciascuna di 52 episodi di circa 7 minuti ciascuna, divide la scena con Pato, una papera gialla con un cappellino verde, Elly, un elefante rosa che ama la danza classica, il cane Loula e occasionalmente il pigro uccellino Bacaroto.

Vincitore del premio Cristal Award per la migliore produzione Tv al 30° Festival Internazionale di Annecy, le vicende del tenero personaggio si svolgono su un fondale assolutamente bianco e  hanno un’innocenza adorabile. Tutto muove dalla curiosità del protagonista che scopre il mondo intorno a sé, che sia una radio che fa ballare tutti a ritmi diversi o che siano bolle di sapore che scoppiano quando le tocchi. Una voce fuori campo si rivolge a lui come un normale adulto a un bambino. Dà suggerimenti, gli pone qualche domanda (senza che ci sia risposta), lo incoraggia magari a capire che se un suo amico ha il sapone liquido e lui ha la paletta da cui soffiare le bolle il modo perché tutti siano contenti è giocare insieme, invita un coro di voci fuori campo di bambini a intervenire occasionalmente con qualche frase. C’è una certa delicatezza e dolcezza adatta all’età, ma godibile anche dagli adulti.

mercoledì 23 febbraio 2011

I folli Darling di DIRTY SEXY MONEY



Nick George (l’attore Peter Krause, il Nate di Six Feet Under, ora nel cast di Parenthood) da piccolo aveva giurato che mai avrebbe fatto la fine del padre: lavorare come avvocato per i ricchissimi Darling trascurando la propria famiglia. Ora è adulto, il padre è appena morto per un incidente aereo che si rivelerà sospetto e su cui deciderà di indagare, e il fondatore dell’impero Darling, Tripp (un Donald Sutherland più in forma che mai) gli offre proprio quel lavoro, con una parcella da capogiro e molte rassicurazioni. Lo vuole perché vuole lo stesso influsso stabilizzante e benefico sulla sua squinternata famiglia che aveva suo padre, il suo migliore amico e, anche se lui fingeva di non saperlo, l’amante di sua moglie Letitia (Jill Clayburgh). Certo, aveva prima chiesto a Bill Clinton di essere il suo avvocato, ma comunque… C’è un po’ di mistero e molta follia in questo telefilm ideato da Craig Wright che potremmo definire una specie di incrocio fra Arrested Development – Ti presento i miei e Brothers and Sisters (non è un caso che produttore esecutivo sia Greg Berlanti), ora in onda con la prima stagione su Mya.

I cinque figli Darling e le loro surreali richieste farebbero ammattire chiunque. Patrick (William Baldwin), il primogenito, ha aspirazioni di senatore; Karen (Natalie Zea) è una specie di divorziata professionale; Brian (Glenn Fitzgerald) è un uomo di Dio; Juliet (Samarie Amstrong, the OC, Entourage) è un attrice senza talento; Jeremy (Seth Gabel) è gemello di Juliet, e finisce sempre nei guai. Come tutti gli altri, di per sé, che chiamano in ogni momento del giorno e della notte il loro fidato Nick, che finisce quasi per fare da babysitter e deve fare i salti mortali per risolvere ogni loro strampalato problema, con buona pace di sua moglie Lisa (Zoe McLellan). Patrick non ha coraggio di mollare il transessuale con cui va a letto? Chiede a Nick di farlo per lui. Karen non riesce a dire al nuovo futuro marito, di cui sbaglia il nome, che non può partecipare alla foto di famiglia? Ci pensa Nick. Brian ha un figlio fuori dal matrimonio e mente dicendo a tutti che è un orfano svedese e costringendo il piccolo a fingersi tale? Lo molla a Nick. Le iperboliche situazioni rendono tutto surreale, ma la serie non è priva di momenti di cuore e di spessore. La mascella cade per terra e si sorride (memorabili le suonerie del telefonino associate dalla segretaria di Nick ad ogni membro della famiglia Darling), e il tempo passa godibilmente. 

martedì 22 febbraio 2011

MEN IN TREES: commedia romantica mancata



Ho resistito a seguire ben 25 puntate prima di gettare la spugna con Men in Trees (ora su Mya con la seconda stagione). La speranza era che migliorasse e che riuscisse a diventare quella commedia romantica che racconta di uomini e donne che aveva le potenzialità di diventare, ma a mano a mano che si procedeva sembrava andare a rotoli sempre più diventando assurda, ridicola, eccessiva, e alla fine le puntate che sono veramente riuscite a brillare sono state ben poche. Non solo le situazioni erano insostenibili (il matrimonio mancato di Patrick ed Annie è un caso a proposito), ma i valori produttivi pure erano patetici (Jack disperso in mare su un canotto la dice tutta – lo fanno meglio i bimbi nel cortile di casa).

Anne Heche interpreta Marin Frist, una scrittrice di grande successo di libri sulle relazioni personali. Dopo che la sua cerimonia di nozze va a monte decide di ricostruirsi una vita in Alaska, nel piccolo villaggio di Elmo, dove le donne sono pochissime e gli uomini percentualmente così tanti invece che ci sono addirittura “Men in Trees”, uomini sugli alberi, come dice lo spassoso titolo che fa riferimento ad un segnale stradale. Qui incontra un villaggio di personaggi curiosi, che gravitano tutti intorno allo stesso locale, gestito da Ben (Abraham Benrubi) e Theresa (Sarah Strange). Figlio della poliziotta Celia (Cynthia Stevenson), Patrick Bachelor (Derek Richardson) è un grande fan di Marin e la invita a partecipare alla sua trasmissione radiofonica, in cui lei riflette su fatti di vita e d’amore. Patrick è un ragazzo molto timido che fa subito innamorare di sé, ricambiandola, la assistente della scrittrice, Annie (Emily Bergl), che si trasferisce pure lei. Marin dal canto suo è attratta dal fascinoso Jack (James Tupper).

Ideata da Jenny Bicks, che già lavorava a Sex and the City, la serie era stata ricollegata a quest’ultima icona tv e insieme, per l’ambientazione, anche a Un medico fra gli orsi: voleva guardare a NewYorkesi fuori dal loro ambiente – Jane, l’editor libraria di Marin interpretata da Seana Kofoed, rimane uno dei miei personaggi preferiti di questo telefilm – insicure, ma determinate, e innamorate. Alla fine però c’è una natura fantastica, uomini “dolciumi per gli occhi” come si direbbe in inglese, ma null’altro. E, siamo seri, chi si veste così con quel freddo??!!

lunedì 21 febbraio 2011

PRETTY LITTLE LIARS: piccole belle bugiarde



Di una cricca di cinque liceali, una, di nome Alison (Sasha Pieterse),  improvvisamente sparisce durante una specie di pigiama party. Un anno dopo, le quattro amiche rimaste cominciano a ricevere messaggi minatori da una fantomatica A. Questa è la base di partenza del telefilm per ragazzi Pretty Little Liars (Piccole belle bugiarde), che debutta oggi su Mya, basato su una serie di libri per giovani adulti scritti da Sara Shepard e una miscela di Gossip Girl, Desperate Housewives e So che cosa hai fatto l’estate scorsa. Sono le classiche storie adolescenziali con un pizzico di thriller, e volti che sono vecchie conoscenze ad interpretare i genitori delle ragazze.

 Protagoniste sono Aria (la Lucy Hale di Privileged), che ha scoperto che il padre ha tradito la madre (Holly Marie Combs di Streghe), ma gli ha promesso di non rivelarlo e che si innamora di un ragazzo poco più grande di lei che poi scopre con sorpresa essere il suo nuovo professore di lettere, Ezra Fitz (Ian Harding) – una storia romantica destinata a durare; Spencer (Troian Bellisario) che deve subire le gratuite angherie della sorella e che proviene da una famiglia di vincenti a tutti i costi in cui si sente perennemente a disagio; Hanna (Ashley Benson), che ruba nei supermercati, salvo poi essere aiutata dalla madre (Laura Leighton del Melrose Place originario) a far sparire l’accusa; Emily (Shay Mitchell), il cui cuore è diviso inizialmente fra due potenziali amori, ma che ammette poi con i genitori, con grande preoccupazione e disappunto da parte loro, di essere lesbica e innamorata di Maya (Bianca Lawson) . 

Tutte e quattro avevano una rapporto ambivalente con la scomparsa Alison, che sapeva essere molto acida. Le investigazioni sulla sua scomparsa non si sono mai chiuse. A scuola intanto è arrivata una cieca che le mette tutte a disagio perché sembra percepire più di quello che dovrebbe. Ken Tucker di Entertainment Weekly ha inserito il telefilm fra i 5 peggiori del 2010, dicendo che è “TV per adolescenti viscida che glorifica male il comportamento cattivo, attraverso una recitazione rigida e un dialogo compiaciuto” e popone di ribattezzare la serie “Ragazzacce manipolatrici e tossiche”. Che non sia alta televisione è più che evidente, ma non mi sento di prendere il programma altrettanto sul serio. Sa giocare bene con gli elementi si suspense tipiche del genere, il gossip e di piccole cattiverie di certa adolescenza. Per una volta non sembra scritto da adulti che cercano di ricordare che cosa significa esser ragazzini, alla fine sempre troppo maturi, ma ha uno spirito da ragazzine che “fanno le grandi”. Di questo inaspettato successo per teenager e tween (quelli fra i 7 e i 12 anni, cioè)  ideato da Marlene Kings, merita una menzione la simpatica sigla la cui canzone (già usata in un promo di “Dexter”) dice che “Due persone riescono a tenere un segreto solo se una delle due è morta”.

domenica 20 febbraio 2011

Festival di SAN REMO 2011: vince Vecchioni



Il 61° Festival della Canzone Italiana, presentato da Gianni Morandi, è stato vinto da Roberto Vecchioni con la canzone "Chiamami ancora amore". Ha ricevuto il 48% delle preferenze. Secondi classificati sono stati i Modà con Emma che hanno cantato, con una romantica interpretazione sul palco, "Arriverà" (40% dei voti). Terzo, Al Bano con la condiscendente "Amanda è libera" (12%), una delle peggiori canzoni di questa edizione, dove nessuna comunque ha completamente conquistato. Rappresenterà l’Italia all’Eurosong il 14 maggio la rivelazione fra i giovani, Raphael Gualani, che ha accompagnato al pianoforte la jezzata “Follia d’amore”.

Guardare San Remo mi fa sentire italiana. È questo il valore aggiunto di una manifestazione che quest’anno potremmo definire sgangherata. È sempre stato così, e probabilmente anche di più quest’anno che ha celebrato i 150 anni dell’unità d’Italia. Nell’introduzione al libro “Scusi, lei si sente italiano?”, a cura di Filippo Maria Battaglia e Paolo Di Paolo (edizioni Laterza), raccolta di voci di intellettuali vari che spiegano che cosa significa per loro appartenere al nostro Paese, si cita una certa Igiaba Scego, nata in Italia da genitori somali, che ha risposto alla domanda del titolo con un elenco. Alla settima voce dice: quando “sento per radio o tv la voce di Gianni Morandi”. In questa prospettiva il conduttore è stato una scelta perfetta. Professionalmente c’era e non c’era, a volte caldo e presente (l’intervista finale con Ranieri ne è stato un bell’esempio), a volte sperduto e improvvisato. Troppe volte per promuoverlo. Eppure ha funzionato lo stesso. E l’immagine più bella della sessantunesima edizione del Festival della canzone italiana è stata probabilmente quella finale di Roberto Vecchioni che cantava dopo essere stato proclamato vincitore (e pure la soddisfazione di aver ricevuto il ‘golden share’, della ‘quota d’oro’ della sala stampa), mentre Gianni Morandi lo stava ad ascoltare appoggiato ad una paretina. “Chiamami ancora amore” è stata indicata come possibile percorso futuro della musica italiana: una via di mezzo fra canzone d’autore e canzone popolare.

Uno dei momenti più intensi di questa edizione è stato l’intervento rinascimental-attuale di Roberto Benigni, arrivato a cavallo per poi spiegare l’inno di Mameli. Bravo, ma ogni volta che lo vedo non riesco a non pensare che in fondo è una lezione-tipo del mio professore di lettere del liceo, nell’esposizione dei contenuti, nei guizzi e nelle digressioni, nell’umorismo, nella mimica corporea. Entrambe di una smilza (troppo), ma innegabile bellezza, le due presenze femminili, Belen Rodriguez e Elisabetta Canalis, sono state spigliate e impacciate a pari merito, con punti di forza e debolezza diversi. Più eclettica Belen. Vorrei sapere chi ha pensato che avere un fidanzato americano e vivere da un paio d’anni negli Stati Uniti possa aver reso competente la Canalis a fare da interprete per De Niro, già un soggetto d’intervista non facile nelle migliori circostanze. Ho sofferto per lei, tesa e piena di paura, a dover arrabattarsi in un ruolo per cui ragionevolmente non poteva essere all’altezza. Poverina, alle prese con il participio passato di “to gentrify”, che alla meno peggio avrebbe potuto rendere al limite con “imborghesimento”, ma che si è arresa e rassegnata davanti all’evidenza di non sapere che cosa significasse. Pazienza. Tradurre è difficile anche per chi ha una buona competenza in entrambe le lingue, figurarsi per una che, come lei, non mastica ancora troppo bene l’inglese. Solo, non dovevano metterla in quella posizione. Io ho giudicato vincitori morali di questo Festival i comici-disturbatori Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu. Sono partiti come una forza della natura con la canzone parodia “Ti sputtanerò” – un buon esempio di come in comicità in certi casi le volgarità possono essere usate in modo appropriato ed efficace – e hanno continuato per tutte le serate, in modo esilarante, ma mai chiassoso. Proprio bravi.

Video Rai.TV - Sanremo - Roberto Vecchioni canta la canzone vincitrice del Festival

venerdì 18 febbraio 2011

GREY'S ANATOMY: la sesta stagione - finale di sangue



La sesta stagione di Grey’s Anatomy è partita in modo molto commovente e sentito, con una doppia puntata strappalacrime (in senso buono) che si è concentrata sul funerale di Gorge (T.R. Knight). Dopo di ciò ha avuto davanti a sé un percorso accidentato. Non che la narrativa sia stata deludente, nella media, ma gli scossoni si sono sentiti: i personaggi di Izzie e Meredith, per impegni personali delle attrici, si sono visti molto poco. Katherine Heigl (Izzie) è proprio uscita di scena in modo definitivo, anche se quando ciò è avvenuto non si sapeva ancora che sarebbe stata la sua ultima scena. La gravidanza di Ellen Pompeo (ma non del suo personaggio) poi ha costretto a usi creativi della telecamera e dell’oggettistica. Non solo. Meredith si è offerta di donare un organo, costringendola a letto sotto le coperte in modo che lei fosse stesa e il pancione non si vedesse: per una volta il recupero da un’operazione ha forzato tempi realistici. La fusione del Seattle Grace in cui sono ambientate le vicende e un altro ospedale, il Mercy West, dovuto a ragioni finanziarie, ha permesso di affrontare il tema attuale della crisi economica introducendo anche una serie di nuovi medici: la dottoressa con gli occhi da cerbiatta Reed Adamson (Nora Zehetner, che abbiamo visto in Heroes e Everwood); il dottor Jackson Avery (Jesse Williams, Greek), tanto atletico quanto preciso; la dottoressa April Kepner (Sarah Drew, Everwood, Mad Men), presto licenziata; il dottor Charles Percy (Robert Baker), che si prende gioco di Izzy. Non vengono accolti bene, all’inizio sono paragonati ad alieni invasori, ma a poco a poco si integrano. Per ora che si arriva alla finale, sono parte del gruppo e la maggior parte di loro esce di scena in una doppia puntata da mega-evento, alla maniera in cui la serie ci ha sempre abituati. Ci sono grandi spargimenti di sangue e suspense. Il marito di una paziente morta in ospedale perde il senno per il dolore, prende una pistola e comincia a uccidere gente a destra e a manca, tenendo ostaggio sotto la canna della pistola gran parte dei beniamini. Le regie di Stephen Cragg (6.23) e Rob Corn (6.24) sono state molto efficaci in cambi di inquadrature repentini e scambi di profondità che hanno saputo trasmettere bene il senso di disorientamento e di paura “alla Columbine”. La sceneggiatura di Shonda Rhimes (6.23 e 6.24) ha retto bene per un tre quarti del percorso, poi ha lasciato le redini, mostrando quella che è la sua debolezza di sempre, sfociare nel melodramma perdendo impatto e scandendo un po’ nel melenso poco credibile. La musica chiaramente mostra un esplicito intento in quella direzione. Per me, quando il killer è entrato in sala operatoria si è perso il limite e tutto quello che seguito è risultato più fiacco di quanto non sarebbe potuto essere diversamente. Una maggiore crudezza e restraint avrebbero sferzato un colpo di duro, una ferita maggiore, e alla fine sarebbe risultato più appagante.

giovedì 17 febbraio 2011

GLEE batte il record di Elvis Presley



Sembra quasi pazzesco. Il cast di Glee batte il record di Elvis Presley per il maggior numero di canzoni diventate una hit nella famosa classifica Billboard Hot 100. Questo in 52 anni della storia della classifica.

Ecco l’elenco degli artisti con il maggior numero di successi
  1. Cast di Glee: 113
  2. Elvis Presley: 108
  3. James Brown: 91
  4. Ray Charles: 74
  5. Aretha Franklin: 73
  6. The Beatles: 67
  7. Lil Wayne: 67
  8. Stevie Wonder: 63
  9. Jay-Z: 62
  10. The Rolling Stones: 57

Fonte: Billboard.

mercoledì 16 febbraio 2011

EPISODES: l'esilarante ritorno di Matt LeBlanc



Nella sigla c’è tutto il senso di Episodes, la sit-com di Showtime ideata da Matt Crane (Friends) e Jeffrey Klarik (The Class), anche produttori esecutivi: un copione appoggiato su una scrivania prende il volo, come fosse un uccello dalle pagine di carta, e dall’Inghilterra fa rotta verso gli Stati Uniti. Passa oceani e canyon per arrivare ad Hollywood, dove un fucile lo impallina e lo fa spaginare e cadere a terra sforacchiato. È l’immagine perfetta di una esilarante commedia che narra di due sceneggiatori comici inglesi di successo, Sean (Stephen Mangan) e Beverly Lincoln (Tamsin Greig), che vengono approcciati dal presidente dell’American television network, Merc Lapidus (John Pankow), per fare un remake a stelle e strisce del loro programma, “Lyman’s Boys”, che ha come protagonista il direttore di un collegio di una scuola elitaria (Richard Griffiths) innamorato di una bibliotecaria lesbica. Sean e Beverly sono entusiasti, ma vedono la propria creatura andare al macello inesorabilmente, ineluttabilmente e sistematicamente, piccola ammaccatura dopo piccola ammaccatura, diventando irriconoscibile e molto meno intelligente. Non è un caso che protagonista della versione USA della loro serie venga scelto Matt LeBlanc – nel ruolo di se stesso – che in Friends, del gruppo, non era proprio la lampadina più luminosa, come direbbero in inglese. Un applauso a LeBlanc che ha saputo giocare con ironia sulla sua immagine di “tontolone” e che finalmente ha trovato un progetto comico degno della sua spesso sottovalutata bravura. Il direttore della scuola diventa un allenatore nella sitcom “Puck’s!”, innamorato di una procace bibliotecaria con cui prima o poi ci si aspetta finirà a letto.

Episodes è divertente e graffiante, soprattutto nel ritratto dell’establishment di Hollywood: Merc, il grande capo che giura amore eterno a un programma quando nemmeno lo ha visto perché “non è uno che guarda molto la TV”, abbraccia tutti e lascia che siano i suoi sottoposti a fare il vero lavoro; il capo in seconda del network, Carol Rance (Kathleen Rose Perkins), in quello che è probabilmente il personaggio più riuscito, che riesce a dire una cosa e il suo opposto contemporaneamente, e sembra essere guidata dall’idea che tutto è perfetto e funziona bene a tutti vano d’accordo e si arrampica sugli specchi per riconciliare la realtà alla finzione; Myra (Daisy Haggard), a capo della sezione per lo sviluppo delle commedie, che non sembra capire una battuta; Andy Button (Joseph May), direttore del casting; Morning Randolph (Mircea Monroe), l’attrice bellissima che è sulla piazza da sempre e che non si sa bene che età abbia. Tutti sorridono, sempre, con sorrisi falsi, e Sean e Beverly, pesci fuor d’acqua, non riescono a capacitarsi  di quel che accade attorno a loro.

Si ride e di gusto, anche su argomenti che non immagineresti sarebbero disposti a prendere come oggetto di comicità (la cecità, lo stupro, le presunte dimensioni gigantesche del pene di LeBlanc). Esilarantemente senza pietà e dolorosamente satirica. Solo 7 le puntate della prima stagione, di cui ne sono già andate in onda 6. Già non vedo l’ora per una nuova stagione.

sabato 12 febbraio 2011

FUORICLASSE: rivalità e piccole vendette



Fuoriclasse (Rai1, domenica, prima serata), la serie in 12 puntate (per sei serate) con Luciana Litizzetto del ruolo di un’insegnante di lettere del liceo, Isa Passamaglia, è partita con uno sprint. Già la prima scena, un incubo in cui si vede piccola piccola davanti a una cattedra che lei raggiunge appena stando in punta di piedi, è da manuale per come riesce a inquadrare in poche pennellate la situazione: è stata lasciata dal marito Riccardo Tramola (Neri Marcorè), un dentista, che è scappato alle Mauritius, ha un figlio che sta per cominciare le superiori e sta per riprendere l’anno scolastico. Lei insegna al liceo Caravaggio – nella realtà il liceo Cavour di Torino - , dove si è appena insediata una nuova preside, una suora (nella cui stanza si vede un’immagine di Camillo Benso, un cenno al luogo delle riprese), suor Clotilde (Mariella Valentini), e dove ci sono antiche rivalità, in particolare con il vicepreside Salvatone Lobascio (Ninni Bruschetta) con cui è un costante braccio di ferro. La recitazione da parte dell’intero cast è molto solida, ma la fiction, ideata da Domenico e Federico Starnone, ispirata ai libri del primo (Ex cattedra, Fuori registro, Sottobanco), con la regia di Riccardo Donna, non riesce a cogliere la realtà scolastica attuale come prometteva di fare. I docenti, che sono i protagonisti principali rispetto agli studenti, che solo dalla seconda puntata cominciano ad avere più peso, sono intrappolati in piccole vendette, rivalità e meschinità.

Certe scelte narrative poi lasciano perplessi. Uno studente un po’ teppista si avvicina con la catena del motorino all’insegnante, lasciando ben intendere che potrebbe usarla per picchiare, e un genitore presente nemmeno interviene a riprenderlo, chiedendosi solo poi se forse avrebbe dovuto farlo, e poi perché sbatte due libri su un bancone pensano di chiamare la polizia: scherziamo? Le attività extrascolastiche vengono decise sulla base delle adesioni degli studenti. La Passacaglia, per evitare che tutti vadano dai colleghi che propongono un approfondimento su Del Piero, invece di parlare della Costituzione, così come progettato, decide di passare (salvo poi cambiare idea) al tema della “sessualità femminile del ‘900 nella letteratura italiana” (nella letteratura italiana poi lo lascia cadere prima di rinunciare in toto al progetto). Se concordo che un tema del genere attirerebbe gli studenti per il titolo, è anche vero che almeno i docenti dovrebbero mostrare consapevolezza che la sessualità femminile non è certo un argomento meno meritevole o meno impegnativo da approfondire della Costituzione. Anzi. E che la preside, perché suora, farfugli il titolo con aria semi-scandalizzata è umorismo forzato che abbiamo visto già fin troppe volte e che non ci serve.

Simpatica idea lo stacco alla pubblicità con il suono della campanella.

venerdì 11 febbraio 2011

TERRA!: meno retorico di un tempo?



Terra! (Canale5, domenica, ore 23.50), il magazine di approfondimento del TG5 a cura di Toni Capuozzo e Sandro Provvisionato, organizza in genere le proprie puntate intorno a un tema portante. Una recente puntata intitolata “Una vita come Steve”, ad esempio, è partita con un servizio sulle vita e i segreti del successo (trovate quel che amate) di quel “folle assennato vecchio ragazzo” di Steve Jobs, fondatore della Apple, per poi parlare di tre ragazzi italiani che non trovando finanziatori in Italia per un progetto imprenditoriale informatico li hanno trovati in California, per poi passare per la Cina fra i nuovi miliardari e finire a chiacchierare con Marko, bimbo con coda di cavallo e orecchino che, a 10 anni, è il più giovane ingegnere di sistemi della Microsoft. Le storie sono legate all’attualità, ma non in modo strettissimo, e lo stile è quasi documentaristico con interviste alternate a spiegazioni di voci fuori campo: questo dà una estensione di vita maggiore della media a quanto viene raccontato. Fra un mese ha lo stesso senso che ha oggi, e il fatto di poter vedere le ultime puntate intere online a partire dal sito del programma è una utile risorsa. Rispetto alle edizioni iniziali si sente meno la forte impronta retorica che da sempre è una caratteristica di Capuozzo, o sono io che la sento meno?

mercoledì 9 febbraio 2011

MEN OF A CERTAIN AGE chiude la prima metà della seconda stagione



Dopo solo sei puntate, chiude per ora la seconda stagione del sempre eccellente Men of a Certain Age. Le puntate dovevano essere 10, per cui l’annuncio che la sesta puntata era l’ultima ha lasciato un po’ di disappunto. In realtà la rete che la manda in onda, la TNT, ha deciso di allungare questo arco con altri due episodi e di dividere la stagione in due parti: le rimanenti 6 puntate andranno in onda probabilmente quest’estate.

Questa prima parte, intanto, non ha deluso. Joe  (Ray Romano, anche co-ideatore insieme a Mike Royce) ha portato il suo problema con il gioco ad una nuova dimensione, con costanti scommesse mentali che hanno cominciato a paralizzare la sua vita; Owen (Andre Braugher) ha cercato di uscire finalmente dall’ombra del padre e di farsi valere come nuovo capo, salvo trovarsi in un braccio di ferro con il genitore che fatica ad andare in pensione e a lasciare le responsabilità che lo hanno sempre fatto sentire vivo, e salvo venire a scoprire che la rivendita d’auto si trova in una situazione finanziaria disastrosa; Terry (Scott Bakula) ha abbandonato temporaneamente i suoi sogni di gloria come attore per vendere macchine accanto a Owen che gli dà una possibilità, anche se pochi accanto a lui credono veramente che possa essere affidabile.

Il tema portante è, come in passato, l’essere “uomini di una certa età”. E, come è stato suggerito su PopMatters in un articolo di Renée Scolaro Mora: “(l)a sua analisi dell’identità maschile, ricca di sfumature e di strati, rende Men of  a Certain Age meritevole d’esser visto.  È un intelligente e ponderato distacco dalla glorificata perpetua adolescenza che ha piagato la caratterizzazione degli uomini nel cinema nel corso degli ultimi anni e in televisione nelle ultime decadi.”

Nessuna serie come questa guarda in faccia quello che dovrebbe essere un tema molto più approfondito dalla fiction, ma che nessuno affronta: l’invecchiare. E lo fa in modo senza sentimentalismi. Un’immagine della finale di metà stagione, “Let the Sunshine in” (2.06), in questo senso è emblematica: quella di un uomo molto anziano che si trascina in ospedale. I tre protagonisti sono lì per una colonscopia, una sorta di regalo per il cinquantesimo compleanno di Terry che tutti e tre hanno trasformato in una specie di avventura e di vacanza. Mentre aspettano di fare l’esame passa loro davanti quest’uomo. E ciascuno di loro, separato dall’altro, lo vede e lo guarda. È stato potente. In questa stagione è diventato un tema molto forte: penso al padre di Owen ex-star dello sport che non ha nessuno davanti a sé a chiedergli l’autografo quando il giovane sportivo accanto a lui ha una lunga fila – la sua stella ormai è tramontata e accettarlo è amaro;  penso al padre di Joe che i tre amici vanno a trovare con riluttanza; penso all’allibratore di Joe che scopre di avere il cancro... Men of A Certain Age, fra le altre cose, guarda a ciò che di brutto c’è nella vecchiaia e lo fa con onestà, ma anche con leggerezza, una cosa ardua da riuscire a mettere a segno.

lunedì 7 febbraio 2011

XLV SUPER BOWL: gli spot pubblicitari



Il Super Bowl, la partita di football americano più attesa dell’anno, si è svolta ieri negli USA. Per la prima volta in 14 anni è stata vinta dai Packers che hanno battuto i Pittsburgh Steelers 31 a 25.

Da un punto di vista televisivo questo evento è motivo di attenzione negli USA, al di là dello sport, per gli spot pubblicitari. Essendo molto seguito infatti, gli spazi promozionali all’interno della partita sono molto ambiti. I nuovi spot debuttano in questa serata e vederli è un appuntamento per molti.

Il Daily Beast ha stilato quelli che ritiene essere stati i 20 migliori spot di questa XLV edizione del Super Bowl e ha pure compilato una lista di “spot vietati” che non sono stati accettati per la messa in onda perché giudicati troppo controversi o inappropriati per varie ragioni, e comprende anche passate edizioni. (Nel sito gli spot non sono solo elencati, ma anche vedibili). Anche PopMatters ha una sua lista.

La partita viene sempre preceduta, oltre ad altre esibizioni, dall’esecuzione dell’inno nazionale. Quest’anno è stato affidato a Christina Aguilera, criticata per aver sbagliato il testo. In seguito la cantante si è scusata dicendo che è stata presa dalla situazione del momento e si è persa nella canzone, ma che spera di essere comunque riuscita a trasmettere il suo amore per il Paese e lo spirito dell’inno. 

sabato 5 febbraio 2011

BOARDWALK EMPIRE: Martin Scorsese approda in una serie TV



Martin Scorsese ne ha fatto la regia del pilot (e per questo ha appena vinto un Directors Guild of America Award) ed è uno dei produttori esecutivi: è questa la prima cosa che tutti dicono di Boardwalk Empire, perché è un nome pesante del cinema (seccante che per questo il satellite lo dia su SkyCinema, defraudando ingiustamente chi ha un abbonamento per le sole serie TV a cui il programma appartiene di diritto). È la prima volta che lavora in un progetto televisivo, se si esclude The  Blues una serie di film documentaristici di cui è stato in quel caso solo produttore esecutivo. Con un telefilm “è grandioso. Puoi vedere che cosa succede ai personaggi dopo che il film è finito” pare abbia commentato, quasi con sorpresa, un giorno al telefono, all’ideatore del telefilm Terence Winters. Questi invece è uno che di TV se ne intende proprio essendo uscito dalla scuderia de I Soprano, insieme a molti dei registi che si alternano in questa serie targata HBO ambientata negli anni ’20 – e Scorsese deliziosamente apre e chiude su un punto focale che si allarga e restringe come facevano le pellicole d’epoca - come Alan Taylor, Allen Coulter o Tim Van Patten. Se critiche negative ci sono state anzi, è proprio per il confronto con le suddette vicende mafiose di cui si sente l’eco.

Siamo ad Atlantic City: la prima guerra mondiale è da poco terminata; le donne non hanno ancora diritto di voto, ma stanno per averlo; comincia il proibizionismo (qui uno dei temi portanti – scherzosamente nel pilot si porta in giro anche una bottiglia come se fosse a un funerale). In città, in un’epoca in cui  si incrociano i nomi di Lucky Luciano e Al Capone (qui per ora ancora dei pesci piccoli), spadroneggia Enoch “Nucky” Thompson, un personaggio realmente esistito, ma qui liberamente rivisitato in una sottile interpretazione di Steve Buscemi. Politica, gioco d’azzardo, alcool illegale, prostituzione, crimine organizzato… la città è in fermento. Il primo impatto è che non ci sia davvero nulla che non si sia già visto altrove, al di là della confezione vintage (di cui si finisce per essere fin troppo consapevoli, per qualcuno, ma non per me), la serie prende quota proprio nelle storie di personaggi come Jimmy  (Michael Pitt, Dawson’s Creek, The Dreamers al cinema) o Margaret (Kelly McDonald).

mercoledì 2 febbraio 2011

MAGNUM P.I. e la rappresentazione della guerra del Vietnam



Un classico dei telefilm anni 80, Magnum P.I., dove PI sta per investigatore privato, ideato da Donald P. Bellisario e Glen A. Larson, durato 8 stagioni, è in replica su Mediaset Extra (ore  20.10). Thomas Sullivan Magnum (nel ruolo che ha dato la fama a Tom Selleck) è un affascinante e seducente ex ufficiale di marina che ora si dedica a fare l’investigatore privato, con l’aiuto di due vecchi amici, TC (Theodore Calvin), commilitone pilota di elicotteri, e Rick Wright (Larry Manetti), gestore di un night club nelle magnifiche Hawaii in cui è ambientata la serie. Magnum, che ha perso la moglie in guerra (o così crede - in seguito ricompare), vive nella dependance di un miliardario che non si fa mai vedere, Robin Masters (che nell’originale aveva la voce di Orson Welles), che gli lascia anche guidare una Ferrari rosso fiammante che diventa quasi un suo segno di riconoscimento. La tenuta del miliardario viene curata dal maggiordomo Higgins (John Hillerman), ex guardia reale inglese, che spesso e volentieri si scontra con Magnum.

I casi di investigazione sono abbastanza dimenticabili, quello che davvero distingue la serie è il tema portante e l’argomento trasversale: la guerra del Vietnam e le sue conseguenze. Non si risparmiano anche scene nei campi di prigionia. Come osservava Christopher Anderson in un saggio che risale già al 1985 “il Vietnam gioca un ruolo cruciale nei ricordi di Magnum. Inizialmente, la Guerra del Vietnam potrà essere sembrata una trovata d’attualità, una novità per distinguere la serie. Nel corso del tempo, tuttavia, è diventata una forza simbolica vitale, e forse la più complessa rappresentazione della Guerra del Vietnam nella cultura popolare”. Le memorie individuali sono collegate alla memoria sociale di eventi storici e in questo modo assumono una funzione simbolica in cui gli sforzi individuali di riconciliare passato e presente sono gli sforzi della società  di venire a patti e superare il proprio passato e farne tesoro nel presente. I ricordi individuali insomma stanno per la storia collettiva. Si va anche oltre tuttavia, sviluppando una “fascinazione proustiana per l’interazione fra memoria, storia e finzione”, rimanendo nel dubbio sulla possibilità di separarle. Nessuna singola espressione del passato rimane isolata o ha la precedenza, e in questo Magnum PI ha sviluppato “una complessa visione della comprensione umana”.

martedì 1 febbraio 2011

IL BOSS DELLE TORTE: dolci per stupire



Se, in campo di televisione, uno mi parla di un boss italo-americano del New Jersey, il primo che mi viene in mente è sicuramente il mafioso Tony Soprano protagonista di uno dei telefilm più apprezzati di tutti i tempi, I Soprano. C’è però un altro personaggio TV che risponde alla tessa descrizione, e con la mafia non ha nulla a che vedere, pur avendo di per sé fatto una comparsata anche nella suddetta serie. Si tratta di un boss molto, ma molto più dolce: è il Cake Boss, Il Boss delle Torte dell’omonimo docureality - una via di mezzo fra un documentario e un reality cioè - in onda con la sua terza stagione su Real Time (venerdì, ore 23.10), durante la quale hanno anche fatto un viaggetto in Italia. All’anagrafe è Buddy Valastro, classe 1977, un rinomato pasticcere che insieme alla famiglia – la madre ora in pensione, quatto sorelle e 3 cognati – gestisce una pasticceria la “Carlo's City Hall Bake Shop”, “da Carlo” dicono nella versione italiana, nella cittadina di Hoboken. È colui a cui il governatore neo-eletto dello Stato si è rivolto per preparare un dolce per 2000 persone per il cui trasporto sono state necessarie sei persone, per intendersi. Come persona è un po’ grezza, di una simpatia un po’ fragorosa, e la sua personalità si vede anche nei prodotti finiti: capolavori di pasticceria vistosi, sgargianti, pieni di una fantasia che non passa inosservata. Sorvolerei volentieri sulle vicende familiari, e la ragione per seguire il programma non è nemmeno in fondo la golosità, ma lo stupore: vedere come costruiscono e modellano autentiche sculture di pan di spagna, zucchero, cioccolato plastico, e vedere il prodotto finito. Si notano le tecniche e le attrezzature, inimmaginabili in una cucina casalinga, ci si inchina davanti al duro lavoro, ma soprattutto si rimane a bocca aperta.