venerdì 10 maggio 2013

CALL THE MIDWIFE: levatrici negli anni '50

 
Pur avendone apprezzati diversi aspetti, non mi ha del tutto convinta la prima stagione di sei episodi di Call the Midwife (Chiama/Chiamate la levatrice), serie che ha avuto nella madre patria Inghilterra anche più successo del popolarissimo Downton Abbey. Ideata da Heidi Thomas (Upstaris Downstairs), è ispirata alla trilogia di memorie di Jennifer Worth, scomparsa pochi mesi prima dell’inizio delle riprese,  il cui primo primo libro ha lo stesso titolo.
Siamo a Londra, anno 1957, quindi nel dopoguerra, e più specificatamente siamo nell’East End, ovvero la zona più povera della città, letteralmente fra scaricatori di porto, in molte occasioni. Con il sostegno del locale convento, la Nonnatus House, dove le suore sono infermiere, alcune giovani donne lavorano come levatrici, inforcando le loro biciclette e pedalando lì dove c’è più bisogno di loro per fornire aiuto a partorienti e puerpere.

L’esordio della serie coincide con l’inizio del lavoro per la ventiduenne Jenny Lee (una luminosa Jessica Raine), che si è lasciata un amore impossibile alle spalle, e ha deciso di dedicarsi interamente alla carriera. La sua voce da adulta (quella di Vanessa Redgrave) fa alcune riflessioni su quello che accade, come fuori campo. Jenny è un po’ ingenua e sprovveduta in alcune situazioni, ma non si tira indietro – il suo comfort non è importante, ha un lavoro e lo deve fare. È lei la vera protagonista, a cui fanno da contorno le suore presso cui va a vivere (ma lei è esplicita nel suo disinteresse a prendere i voti) – Sister Julienne (Jenny Agutter), la comprensiva e efficiente suora a capo della struttura;  Sister Evangelina (Pam Ferris), la più energetica e robusta del gruppo; Sister Bernadette (Laura Main), la più giovane e colta, che spesso istruisce le giovani levatrici; Sister Monica Joan (Judy Parfitt), un’anziana eccentrica religiosa ora in pensione, e con qualche problema di demenza senile, ma fra le prime a lavorare in questo campo. E accanto alle “sorelle” che la guidano ci sono le colleghe più o meno coetanee: la biondo-platino Trixie Franklin (Helen George), più festaiola; la minuta Cynthia Miller (Bryony Hannah), che ha l’aria quieta di un topolino di biblioteca; e quella che si potrebbe definire un “donnone”, Camilla  “Chummy” Browne (miranda Hart), che pratica la professione contro il volere della sua ricca famiglia e si innamora di un poliziotto, Peter (Ben Caplan) .

Molti aspetti sono apprezzabili nella serie, a partire dal fatto che si focalizza su una realtà femminile che tanto peso ha avuto nella storia e che è rarissimo vedere rappresentata. Sono storie di donne, per la maggior  parte, narrate sì attraverso le protagoniste, ma anche attraverso le “donne di passaggio” quelle che vengono indicate come le vere “eroine”, ovvero le madri. Ci sono successi, sconfitte e paure: il parto podalico, la morte per eclampsia, la moglie che ha timore che il figlio esca nero quando il marito è bianco, la ragazzina costretta a prostituirsi a cui viene tolta la bimba che voleva tenere… ed è anche interessante come maternità e carriera, due temi che vengono spesso posizionati uno contro l’altro quando si tratta di donne, vengano concepiti in un medesimo contesto che non le mette in opposizione.
Con delicatezza e acume sono state trattate questioni che raramente trovano spazio altrove, come la solitudine o la vecchiaia, ma anche l’educazione alla salute, anche sessuale. Tutto quello che riguarda il personaggio di Chummy poi, a partire dalla sua imponenza fisica, è da applaudire, per il modo in cui è stato concepito, scritto e interpretato: una donna vera, che sfida ogni stereotipo e che facilmente avrebbe potuto diventare una macchietta ed è stata invece il cuore di momenti di grande spessore. Anche la misura con cui sono stati trattati i rapporti sentimentali mi ha fatto amare la serie.
Quello che ha fatto sì che però non mi conquistasse del tutto è che talvolta le vicende rendevano un po’ troppo pittoresche realtà crude. E la prima stagione si chiude con queste parole di Jenny: “Nell’East End ho trovato grazia e fede e speranza, nascosta negli angoli più bui. Ho trovato tenerezza nello squallore, e riso nella sporcizia. Ho trovato un proposito e un percorso. E ho lavorato con passione per la migliore ragione di tutte – l’ho fatto per amore”. Questo è sicuramente il filo conduttore della serie, ma un amore inteso un po’ alla maniere delle suore, si direbbe, quello perciò che almeno io difficilmente mi sento di definire tale, ma che al limite intendo come un disinteressato coinvolgimento nei confronti del benessere del prossimo. Questo sentimento secondo me la serie lo rende bene, ma è come un’ombra insoddisfatta proiettata su ogni cosa. La serie brilla quando sfugge questo atteggiamento “impostato” e diventa autenticamente umana.

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