mercoledì 25 marzo 2015

iZOMBIE: la prossima Veronica Mars?



In iZombie, il nuovo telefilm della CW, una aspirante cardiochirurgo,  Olivia “Liv” Moore (Rose McIver, Masters of Sex), viene attaccata ad un party e diventa una zombie. Abbandona così la sua promettente carriera per lavorare in obitorio, dove può soddisfare senza problemi la sua necessità di nutrirsi di cervelli umani che lei mescola a noodles e salse piccanti. Come effetto collaterale della sua alimentazione ha delle visioni della vita delle persone a cui appartenevano e si finge una sensitiva per aiutare il detective Clive Babineaux (Malcolm Goodwin) a risolvere i suoi casi, su suggerimento del suo capo, il dottor Ravi Chakrabarti (Rahul Kohli), che ha capito da solo la situazione. Questi è convinto che prima o poi troveranno una cura per la sua condizione, ma lei non se lo aspetta e lascia il suo fidanzato, ora ex, Major (Robert Buckley). La trasformazione di Liv, che dall’esterno viene scambiata per una emo o una appassionata di cultura goth, non passa inosservata alla madre Eva (Molly Hagan) e alla sua migliore amica Peyton (Aly Michalka, Hellcats), che credono soffra di disturbo post-traumatico da stress per l’aggressione subita al party. A farla diventare una non-morta è stato il temibile Blaine (David Anders, Alias) da cui si sente ancora perseguitata.
La serie è basata su fumetti ideati da Chris Robertson e Michael Allred, e questa origine è rammentata dagli stacchi fra una scena e l’altra, riprodotti proprio a fumetto, con una modalità che fa ripensare a Heroes. A portare questa creazione sul piccolo schermo è stato Rob Thomas, l’ideatore di Veronica Mars, insieme a Diane Ruggiero-Wright, che pure ha lavorato per la stesso cult, e le impronte digitali si vedono tutte - il vibe è quello, con tanto di massime brillanti citabili, riferimenti a cultura high- e lowbrow, umorismo, dinamiche frizzanti, avventura, cuore, un pizzico di inegnuità e, è proprio il caso di dirlo, cervello.  
Davvero potrebbe essere la prossimo Veronica Mars, o la prossima Buffy, tutto dipende da come verrà sviluppata. Nel pilot la storia criminale è stata piuttosto scontata e pedestre, e l’intenzione è di tenersi sul procedurale, ma se riesce ad evitare di essere troppo formulaica, il potenziale per diventare must-see-TV c’è.       
Sotto, un promo sottotitolato in italiano:

domenica 22 marzo 2015

HOW TO GET AWAY WITH MURDER: una serie feroce


È terminata con due colpi di scena potenti la prima stagione di How to get away with murder,  Le regole del delitto perfetto in italiano, una serie la cui poetica si può probabilmente riassumere in una delle frasi pronunciate dalla protagonista nell’ultima puntata (1.15) a circa dieci-quindici minuti dalla fine:  “Non c’è verità in un’aula di tribunale, c’è solo la vostra versione della verità contro la loro; è così che funziona la giustizia: non è che cosa è giusto o equo, ma è chi racconta la storia più convincente”. Nei casi di tribunale che discutono, nelle loro vite private, e in modo meta-testuale nel racconto che guarda lo spettatore, la filosofia è che si deve raccontare la storia che ha più senso e che ci permette di andare avanti, e a ripeterla a sufficienza diventerà realtà.  
La serie ha come protagonista Annalise Keating (Viola Davies), brillante avvocato difensore pronta a tutto per i suoi clienti. Insegna anche all’università, e ogni anno seleziona gli studenti più dotati per seguire con lei i suoi casi. Si tratta di Connor Walsh (Jack Falehee), ragazzo gay pronto a usare la propria sessualità per ottenere quello che vuole; Michaela Pratt (Aja Naomi King), ambiziosa sul lato professionale e prossima alle nozze; Laurel Castillo (Karla Souza), ragazza quieta che ha un rapporto conflittuale con la famiglia;  Asher Millstone (Matt McGorry, Orange is the New Black), figlio di un rinomato giudice; e Wes Gibbins (Alfred Enoch), che la docente prende sotto la sua ala protettrice. Con Annalise, che nella vita personale ha una storia extramatrimoniale con il detective Nate Lahey (Billy Brown), lavorano Frank Delfino (Charlie Weber) , pronto a fare il lavoro sporco, e Bonnie Winterbottom (Liza Weil, Gilmore Girls), altro avvocato, ma non brava quanto Annalise.
Tutta la prima stagione, nella sua storia orizzontale, ruota intorno all’omicidio di una studentessa universitaria, Lila, della cui morte viene accusata Rebecca (Katie Findlay), vicina di casa di Wes e presto sua fidanzata. È nel cercare di proteggere lei che Wes e tutti i ragazzi tranne Asher, che ne resta all’oscuro, uccidono accidentalmente il marito di Annalise, Sam Keating (Tom Verica, American Dreams), che lei sa aver avuto una storia con la ragazza uccisa, che aveva messo incinta. I ragazzi si liberano del cadavere e comincia per loro la paura di essere scoperti. Il resto della stagione, al di là della storia verticale della singola puntata, cerca di ricostruire che cosa sia realmente accaduto e chi sia il vero colpevole (si scopre nell’ultima puntata), con una narrazione che per la prima parte della stagione (le prime nove puntate andate in onda nel 2014) ha presentato gli eventi solo in modo frammentario,  procedendo a ritroso con progressive rivelazioni che sono partite dal momento in cui hanno cercato di sbarazzarsi del cadavere. Una ricostruzione unitaria è avvenuta solo prima della pausa invernale.      
Ci sono molti aspetti che questo progetto di ShondaLand (la compagnia di Shonda Rhimes che è qui produttrice esecutiva) ideato da Peter Nowalk che funzionano a dovere: l’uso de tempo, con scarti che rendono le vicende dinamiche a sufficienza senza essere confuse; la sensazione di tensione e urgenza costanti; la diversità nel cast; l’idea che la realtà spesso non è così come sembra;  le magnifiche scene di sesso (e penso a Connor in particolare); il profondo senso di infelicità che attanaglia tutti i personaggi, Annalise e Bonnie in primis; la costruzione narrativa in sé e per sé che è chiaro essere timonata con destrezza e senza incertezze.
Eppure, non mi è piaciuto. E forse per me le ragioni sono solo l’irruente leggerezza con cui di fatto vengono trattate questioni complesse, accennate ma mai davvero approfondite, l’aggressività dell’atmosfera, e l’etica che sta a fondo del programma, che impila menzogna su menzogna, come modalità di sopravvivenza, ma alla fine come stile di vita. Annalise è un avvocato feroce almeno quanto How to Get Away with Murder è una serie feroce. Forse è un pregio, ma non posso dire mi piaccia.

mercoledì 11 marzo 2015

MAISON CLOSE - La Casa del Piacere: la prima stagione


Si è da poco chiusa su La Effe la prima stagione di Maison Close – La Casa del Piacere (Canal+, 2010), che ora la rete fa seguire, senza soluzione di continuità, dalla seconda stagione. Siamo nella capitale francese, nel 1871, poco dopo l’esperienza della Comune di Parigi e, come è facile capire dal titolo, siamo in un bordello, il Paradis. Padrona è Hortence Gaillac (Valérie Karsenti), lesbica innamorata di una delle prostitute più apprezzate di questa casa di tolleranza di lusso, Véra (Anna Charrier). Quest’ultima vorrebbe essere libera, e per un momento quasi ci riesce - il tema della libertà è molto presente in questa serie ideata da Jacques Ouaniche, che ritrae queste professioniste del sesso come prigioniere e vittime, spesso pressate dai debiti a quel genere di vita. Una di queste è Rose (Jemima West), arrivata in città in cerca della madre, che faceva il mestiere. La sua verginità messa all’asta al maggior offerente è emblematica di questa schiavitù. Un’altra delle ragazze protagoniste, Angèle (Blandine Bellavoir), sogna di costruirsi una vita con l’uomo di cui è innamorata. Margerite (Catherine Hosmalin) apre la porta ai clienti e si assicura che le ragazze righino dritto. Per il resto ci pensa la legge, molto rigida nei loro confronti.
La serie parte con un’estetica da telenovela, sia nell’aspetto narrativo che in quello stilistico, da cui si affranca un po’ nel corso delle puntate, anche se mai del tutto. Ho trovato coraggioso ad esempio che abbia cercato di affrontare il tema della prostituzione di bambine (1.07), salvo poi risolvere la questione con modalità da feuilleton tutto raggiri, coincidenze e omicidi. È magari anche avvincente, ma un maggiore realismo sarebbe risultato più di impatto. Per questo la serie non convince mai del tutto.
C’è poco coinvolgimento emotivo con i personaggi e in parte questo è dovuto al fatto che i rapporti fra di loro sono poco approfonditi. Si sviluppano infatti magari anche sul piano della trama e dell’intrigo, ma da un punto di vista relazionale sono abbastanza piatti o proprio inesistenti. I personaggi fra loro di fatto, pur condividendo uno spazio fisico ristretto, risultano abbastanza isolati. I momenti in cui la serie è riuscita infatti a elevarsi è lì dove è stato creato un ponte fra loro (come è stata la conversazione fra Véra e Rose, stese a letto a giocare e scambiarsi due chiacchiere). Il più delle volte, al di là delle macchinazioni, non condividono realmente aspetti della vita. Questo l’ho percepito come un grosso difetto della sceneggiatura, anche perché non mi pare realizzato volontariamente con il senso di dire che in quel genere di ambiente, pur nella vicinanza fisica con altre persone che condividono la tua stessa sorte, in realtà sei solo e abbandonato e spesso disperato, perché non trovi né amicizia, né amore, né alcuna intimità emotiva.
Alcuni colpi di scena li ho trovati exploitative, come si direbbe in inglese, ovvero un po’ “approfittatori”, per facile effetto shock del momento e per mandare avanti il plot, ma con scarso peso umano. L’ho pensato nella modalità in cui hanno fatto perdere la verginità a Rose, ma lì l’ho condonato perché mi è parso voler essere un mezzo per caricare emotivamente il suo personaggio come qualcuna che di fatto è fatta schiava contro la sua volontà. Emblematica però per me è stata a questo proposito la vicenda dell’acido gettato in faccia a una delle ragazze (1.02) come forma di ritorsione di un malvivente verso Hortence. Al di fuori dalla funzionalità per la trama, c’è stata troppa poca empatia da parte delle colleghe per quello che aveva vissuto la ragazza, per l’atto subito, per il futuro che le sarebbe aspettato, per i possibili risvolti per loro stesse se si fosse ripresentata la situazione. Mi ha immediatamente richiamato una vicenda similare, mutatis mutandis, in Bomb Girls, dove una delle operaie rimane sfigurata sul lavoro. Lì siamo su un altro pianeta. Pur non essendo nemmeno stato sviluppato in modo particolarmente approfondito, con poche pennellate lì si è reso il dramma della persona che qui non c’è.
La cosa che ho invece trovato interessante è il fatto che salvo pochissime  eccezioni, Pierre Gaillac (il fratello di Hortense, effettivo proprietario del bordello) e Brise Caboche (l’innamorato di Angèle) in particolare, o pochi clienti, di per sé gli uomini non esistono, sono solo una sorta di massa indistinta e casuale e non hanno un vero senso, ma sono relegati a quel ruolo che di solito hanno le donne nel film medio. Sono tutte femmine e questo è sì voluto, per come l’ho percepito, e l’ho trovato interessante.  
Per quanto riguarda specificatamente la messa in onda da parte di La Effe, mi ha scandalizzato che sia stato indicato come un programma adatto a “bambini accompagnati”: a un certo punto devono essersene resi conto perché in chiusura di stagione hanno cambiato e lo hanno indicato come adatto solo a un pubblico adulto; mi ha vagamente insultato la pubblicità che diceva che “essere donne è sempre stato un lavoro a tempo pieno”, facendo equivalere l’essere donne all’essere prostitute (e lo dico pur non provando io riprovazione morale per la prostituzione); e ho invece apprezzato molto l’acuto suggerimento commercial-letterario, giustapposto al programma, di leggere Il Petalo Cremisi e il Bianco di Michel Faber, libro che si avvicina alla serie per tematica ed epoca, e che ho amato molto.      

martedì 3 marzo 2015

THE ODD COUPLE: stantia

 
Niente, Matthew Perry proprio non riesce a trovare un progetto degno del suo talento comico, nemmeno con il recentissimo The Odd Couple, rifacimento di quella “strana coppia” che già era diventata una sit-com di successo  negli anni ’60-’70 che era basata su una commedia di Neil Simon. Quella volta Oscar Madison e Felix Unger erano interpretati rispettivamente da Jack Klugman e Tomy Randall, questa volta il ruolo del disordinato giornalista sportivo radiofonico spetta a Matthew Perry e quella dell’ossessivamente ordinato fotografo a Thomas Lennon. Gli amici Teddy (Wendell Pierce, Treme) ed Emily (Lindsay Sloane, Weeds), e l’assistente di Oscar, Dani (Yvette Nicolle Brown, Community), completano il cast.  
La serie, sviluppata per la TV dallo stesso Perry con Danny Jacobson, è trita e stantia, anche se è bello notare che non è più tabù parlare di omosessualità. Si è sempre presunto che il personaggio di Felix fosse segretamente gay. Qui, con umorismo ben riuscito – uno dei punti più riusciti di un pilot forzato e caricaturale -,  si discredita quella teoria.  Salvo qualche raro momento non si ride. Meglio recuperare l’originale.