domenica 13 settembre 2015

MR. ROBOT: la serie rivelazione dell'estate


Mr. Robot è la serie rivelazione dell’estate. Ideata da Sam Esmail, al suo esordio in TV, era pensata in origine come un film, tanto che la prima stagione è da considerarsi, dicono, come il primo atto di quell’ipotetica pellicola. Con una voce autoriale distintiva e un approccio estetico assolutamente originale, Mr. Robot è stata salutata come la prossima Breaking Bad, o Mad Men, e accostata a Taxi Driver e Fight Club, di cui per qualcuno è l’erede spirituale. Negli Stati Uniti è in onda su USA Network, una rete che nel tempo ha presentato più volte idee fresche, ma nessuna che sul serio abbia saputo distinguerla come una canale che presentava programmi di qualità alla maniera in cui è successo alle varie HBO, AMC, Showtime, nonostante programmi di un certo successo come Suits e Psych. Questa potrebbe essere l’occasione della svolta.  

La premessa è apparentemente molto più lineare di quanto non sia poi invece complicata la costruzione successiva del mondo che mette in scena e stratifica. E il narratore non è sempre attendibile, o almeno questa è la percezione. Protagonista è Elliot Alderson (l’attore di origine egiziana Rami Malek), un hacker dipendente dalla morfina, asociale, paranoico, che soffre di ansia, depressione, allucinazioni e solitudine e non ama essere toccato. Lavora come ingegnere per una compagnia di sicurezza informatica, la AllSafe, e nel tempo libero spia costantemente la vita digitale delle persone che lo circondano, compresa la sua psicoterapeuta, la dottoressa Krista Gordon (Gloria Reuben), e cerca di “punire i cattivi” e proteggere quelle che giudica brave persone agendo un po’ come un vigilante – e qui possiamo pensare a un leggero parallelismo con Dexter: lì dove quest’ultimo conservava delle piastrine con una goccia del sangue delle sue vittime, Elliot conserva dei CD per ciascuno dei suoi “osservati”, registrati con titoli di dischi. Il misterioso Mr Robot del titolo (un Christian Slater che finora è stato il bacio della morte per ogni soggetto televisivo a cui ha partecipato e che finalmente ha trovato un progetto degno del suo talento) lo recluta nella sua fsociety, un gruppo anarchico o silmil-tale che punta a fare una rivoluzione e creare una società più giusta azzerando i debiti delle persone. Loro principale bersaglio è la corporazione E-Corp che finisce per essere definita Evil-Corporation, dove Evil in inglese è il Male, comandata da Terry Colby (Bruce Altman). In realtà il logo è quello della Enron, un reale conglomerato andato in bancarotta nel 2001 e accusato di condotta fraudolenta.

Eliott, seppure con molte titubanze e riserve, accetta e si trova a lavorare con Darlene (Carly Chaikin) e un gruppo di altri superesperti di computer, Romero (Ron Cephas Jones),  Trenton (Sunita Mani) e Mobley (Azhar Khan), che si incontrano in una dismessa arcade di videogame – la stessa title card del programma ricorda nella grafia i giochi Atari. Elliot ritiene la E-Corp responsabile della morte del padre, così come fa la sua amica d’infanzia e collega Angela (Partia Doubleday), che pure lei in altra forma lavora per fermarli perché li ritiene colpevoli del decesso prematuro della madre. Per quella corporazione lavora anche l’ambizioso, frustrato arrivista Tyrell Wellick (l’attore svedese Martin Wallstrӧm), che qualcuno ha avvicinato ad American Psycho, e a me continua a ricordare i personaggi dei grandi romanzi russi ottocenteschi, per qualche ragione, sottomesso alla temibile moglie Joanna (Stephanie Cornelliussen) – un personaggio che promettono avrà un rilievo maggiore nella prossima stagione e che è stata avvicinata a Lady MacBeth.   

Una delle cose più affascinanti di Mr. Robot è il suo modo di inquadrare, unico e molto distintivo. I fotogrammi non sono centrati o tagliati nel modo in cui ti aspetteresti. Un esempio: due personaggi stanno conversando e vengono inquadrati separatamente; il primo si troverà nell’angolo in basso a sinistra dello schermo, il secondo verrà inquadrato poi nell’angolo a destra. Lo spazio negativo dell’inquadratura ne costituisce la grande totalità e non trovi la figura che parla rivolta a sinistra situata sulla destra, come accade di regola. È una estetica visuale reiterata che potenzia l’atmosfera alienata, snervante, delirante e punk che è un po’ il gusto di sottofondo della storia. “L’arresto di Terry Colby è nella mente di tutti – sugli schermi – potrebbe ben essere la stessa cosa oggigiorno” (1.02), commenta Elliot con un’affermazione che ti fa prestare attenzione al framing dell’immagine una volta in più. La musica è anche usata in modo molto efficace.

Le puntate sono in bilico fra realtà e illusione, la cui dialettica è uno dei grandi temi affrontati. Puntate successive e la continuazione delle vicende dalla premessa che ho enucleato sopra – su cui non mi addentro per evitare spoiler – rendono molto forte quest’idea, che è a momenti anche allucinatoria, come ben rende l’episodio “eps1.3_da3m0ns.mp4” (1.04). E si noti come è scritto il titolo della puntata: sono  tutte realizzate così, come finti file digitali. Il tono ipnotico di Rami Malek quasi reinventa il senso del voice-over. È un attore perfetto per la parte, molto contenuto nella sua espressività fisica, e vivacissimo nell’uso dello sguardo, in cui vengono accentuati gli occhi sporgenti incorniciati dal cappuccio che indossa sempre e che è diventato iconico del programma. Tutto il casting è impeccabile – e per una volta è fantastico vedere che attori non bianchi sono utilizzati in modo indipendente dalla propria etnicità, per così dire. Si può osservare però che il mondo là fuori è di ogni gender e colore,  quello dei cattivi è quasi uniformemente di maschi bianchi.

Ormai peraltro da un punto di vista narrativo è davvero difficile sorprendersi, ma qui è capitato più volte e penso in particolare alla fine di 1.02, nella ormai celebre (almeno fra i fan) scena della ringhiera, ma anche a un numerosi momenti con Tyrell e in particolare all’apertura di 1.03 e al suo successivo incontro in camera da letto con la moglie, ma anche in tanti altri, come a cena e poi in bagno dal suo capo. Se il sottofinale (1.09) era prevedibile, molto meno lo è stata in fondo la puntata finale (1.10). E le vicende hanno una pregnanza rispetto all’attualità sorprendentemente rilevante, anche, in qualche caso.

C’è un’idea di fondo: la rivoluzione. Io sono una persona che ritiene che il concetto di rivoluzione, così come storicamente e un po’ romanticamente inteso, sia un’idea molto ingenua, per non dire risibile, nella società attuale. Questo non significa che le rivoluzioni non accadano, ma l’idea di un manipolo di persone che si mette a “fare la rivoluzione” lo trovo poco credibile. O auspicabile. E nonostante i protagonisti abbiamo proprio questo proposito, non sono poi così sicura che l’idea di fondo del programma sia a favore di questo genere di rivoluzione (il tempo lo dirà). Anche politicamente, devo dire, non sono così sicura di che posizione abbia il programma. C’è stata una battuta esplicita contro la politica del lavoro di Obama, ad esempio, in una delle prime puntate. E nell’ultima puntata - la cui messa in onda è stata posticipata a causa degli echi che si potevano percepire con una sparatoria in Virginia avvenuta quest’estate, in segno di rispetto delle vittime della tragedia nella vita reale - un personaggio che si toglie la vita in diretta porta il cognome di Plouffe. Non ho potuto non notarlo, sapendo che Plouffe è uno stratega politico americano che era il direttore della campagna elettorale di Obama. Magari è solo un caso, chissà, ma appunto ci ho fatto caso. Di fatto si rimane ambigui, cosa che aumenta l’appeal del programma.

Alla fine il senso proprio e vero delle rivoluzioni, un senso in cui io mi riconosco, e che mi fa ripensare anche a David Foster Wallace, è in fondo per me quello che esprime Elliot alla fine di “eps1.4_3xpl0its.wmv” (1.05), in un momento in cui il loro progetto va temporaneamente in fumo: “Mio padre è venuto a prendermi a scuola un giorno e abbiamo marinato e siamo andati in spiaggia. Era troppo freddo per entrare in acqua e così ci siamo seduti su una coperta e abbiamo mangiato la pizza. Quando sono arrivato a casa le mie scarpe da ginnastica erano piene di sabbia e l’ho scossa sul pavimento della mia camera. Non sapevo la differenza, avevo sei anni. Mia mamma mi ha urlato per il casino, ma lui non era arrabbiato. Ha detto che miliardi di anni fa lo spostamento del mondo e il movimento dell’oceano hanno portato quella sabbia in quel punto della spiaggia e poi io l’ho portata via. Ogni giorno, ha detto, cambiamo il mondo. Cosa che è un bel pensiero finché non penso di quanti giorni e vite avrei bisogno per portare a casa una scarpa piena di sabbia finché non ci fosse più spiaggia. Finché facesse la differenza per qualcuno. Ogni giorno cambiamo il mondo. Ma per cambiare il mondo in un modo che significhi davvero qualcosa, quello richiede più tempo di quanto le persone abbiano. Non accade mai tutto in un colpo. È lento. È metodico. È sfiancante. Non tutti ne abbiamo lo stomaco”. (Le traduzioni delle citazioni sono mie).

Un thriller psicologico inquietante e imperdibile. Fra le migliori serie dell’anno, se non la migliore in assoluto.  

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