giovedì 9 febbraio 2017

STRANGER THINGS: nostalgico


Siamo nel 1983, in una cittadina dell’Indiana chiamata Hawkins. Un ragazzino di 12 anni, Will Byers (Noah Schnapp), svanisce misteriosamente nel nulla. Lo cercano sia la madre Joyce (Winona Ryder), disperata, che si rivolge al capo della polizia Jim Hopper (David Harbour), sia i compagni di giochi, Mike (Finn Wolfhard), Dustin (Gaten Matarazzo) e Lucas (Caleb McLaughlin) che si imbattono in una ragazzina con i capelli rasati a zero, Undici, Eleven detta El (Millie Bobbie Brown) in originale, con poteri mentali particolari, fra cui la telecinesi, scappata da un laboratorio dove una serie di scienziati faceva esperimenti su di lei cercando di potenziare e usare queste sue capacità. A dirigere l’agenzia governativa segreta è un uomo che la ragazzina chiama papà, il dottor Martin Brenner (Matthew Modine). Loro, così come il fratello di Will, Jonathan (Charlie Heaton), e la sorella di Mike, Nancy (Natalia Dyer), entrambi adolescenti, scoprono in modo separato, per poi unire le forze, che il ragazzino è stato rapito da una mostruosa creatura - un enorme mostro antropomorfo con la testa che sembra una pianta carnivora gigante -, e portato nel “sottosopra”, una specie di dimensione parallela.

Stranger Things, ideata dai fratelli Matt e Ross Duffer, una delle serie più apprezzate del 2016, è prima di ogni cosa un’operazione nostalgica. Insieme alla collocazione temporale recupera lo spirito narrativo e riproduce gli stilemi estetici di quell’epoca. Le storie si prendono sul serio, senza ironia, ma anche senza cinismo, e il gusto è quello di una storia per ragazzi. È sicuramente apprezzabile anche da un adulto, ma ha la sensibilità, l’innocenza e l’ingenuità di una avventura ancora infantile, un po’ alla Spielbergiana maniera, uno degli autori qui più evocati (c’è la piccola Eleven in vestito e parrucca alla ET, tanto per dirne una), insieme a Stephen King. Entro questi limiti, che qui vengono fatti diventare punti di forza, la serie è estremamente ben realizzata, compatta, senza sbavature. È una storia multi generazionale – gli adulti, gli adolescenti, i pre-adolescenti – e di amicizia, che permette di superare il bullismo e di sconfiggere i mostri. I personaggi vivono situazioni inquietanti, ma non sono abbandonati a loro stessi, e trovano sostegno e una soluzione.

Prelapsario, ha definito Emily Nussbaum il loro mondo di walkie-talkie, telefoni fissi e ragazzini che girano ovunque a piacimento in bicicletta. Ha acutamente osservato come c’è un raro rispetto per il dolore di tutti, adulti e ragazzi. Joshua Rothman, sempre sul New Yorker, lo vede come un esperimento profondamente americano, dove l’ottimismo si scontra con l’atavismo, dove personaggi odierni coraggiosi, egualitari, aperti, onesti, si contrano con l’orrore alla Lovecraft-maniera dove nell’esplorare l’universo scopriamo che la normalità è l’orrore, non la bellezza,  e caratterizzato dall’indifferenza del cosmo, la vastità del tempo e la natura come qualcosa di alieno, cose che sono la memoria di un passato turbolento e paranoico. Il presente insomma si scontra con il passato, con paure che speravamo di esserci lasciati alle spalle.

Una parte di me non è certa di quanto il mostro sia inteso esplicitamente come il prodotto della violenza prodotta dalla figura paterna sulla piccola Eleven – volendo del patriarcato sulle giovani donne – o quanto meno la fuga, se non la creazione del mostro, siano dovuti ai ripetuti abusi, ma in questo c’è sicuramente anche un margine, nella seconda stagione promessa da Neflix dopo il successo delle 8 puntate della prima stagione, per un possibile ritorno di Eleven che si sacrifica in conclusione per salvare tutti.  

Nessun commento:

Posta un commento