venerdì 7 luglio 2017

THE LEFTOVERS: la terza e ultima stagione


ATTENZIONE SPOILER. È terminata su una nota positiva la terza e ultima stagione di The Leftovers il sui senso ultimo, attraverso Kevin (Justin Theroux) e Nora (Carrie Coon) che ora anziani si ritrovano, è stato quello di dire che, anche se non li dimenticheremo mai, dobbiamo avere il coraggio di lasciarci alle spalle chi è scomparso ed esserci gli uni per gli altri nel presente, amandoci al meglio delle nostre capacità. E in modo davvero geniale si è riusciti sia a dare una spiegazione di tutto, sia allo stesso tempo di lasciare il sospetto che nulla sia vero. Quello che conta è che si scelga di crederci. Questo in fondo è il senso della religione, sembrano voler dire, non conta se sia vero o no, conta se ci si creda o no. La disamina dello spirito religioso è in fondo una delle correnti forti sottese al programma. E l’intera stagione è stata incentrata sulle storie – religiose o meno che siano - che ci raccontiamo per riuscire a dare un senso alla vita.

Nora la vediamo mentre si appresta a eseguire una procedura che la catapulterà nella stessa dimensione dove si ritiene sia finito il 2% della popolazione a suo tempo scomparsa. Il vano che le permetterà di trasportarsi sta per riempirsi di uno speciale liquido che pare acqua, e all’ultimissimo istante le sentiamo gridare “s...”. E lì si stacca la scena. Quella esse sta per “stop”? Ha deciso di rinunciare all’ultimo momento?  Quando la rivediamo anni dopo,  ormai incanutita, racconta a Kevin di essere andata dall’altra parte, di aver trovato un mondo speculare in cui era scomparso il 98% della popolazione. Ha visto il lutto generale. Ha ritrovato i suoi figli e suo marito, ma non si è voluta rivelare perché si è resa conto che ormai avevano una loro nuova vita, felice per quel che poteva esserlo. Ha ricontattato lo scienziato responsabile della tecnologia che l’ha portata lì per farsi rimandare indietro. È vera la sua storia o è frutto della sua immaginazione o è comunque qualcosa che racconta anche se stessa per sopravvivere? Kevin decide di crederle, sta a noi decidere se vogliamo fare altrettanto.

Gli autori sono stati autenticamente geniali proprio perché non solo sono riusciti a lasciare nell’incertezza con un espediente sufficientemente banale in apparenza, ma anche perché in quella stessa incertezza è trattenuto e condensato il significato ultimo della serie tutta. “Let the Mistery be” (Lascia che il mistero sia) di Iris DeMent  dice la canzone che è stata la sigla della seconda stagione e che viene ripresa in chiusura di una terza che ha deciso ad ogni puntata di cambiare tema musicale.  (La musica è stata sempre usata in modo sublime, e sull’ultima puntata si legga il lunghissimo, ma appassionante articolo di Vulture).

The Leftovers è talmente densa e concettosa, allucinatoria e perennemente ai limiti dell’onirico, da rendere mastodontico ogni tentativo di esegesi che non sia disposto ad accuratamente analizzare ogni puntata ed ogni passaggio. Non ha senso e ne ha completamente. I riferimenti religiosi sono numerosi, si pensi anche solo al diluvio universale che è stato un po’ il filo conduttore dell’ultima stagione ambientata in Australia,  alla capra della season finale, su cui i partecipanti ad una festa caricano delle collane che rappresentano i propri peccati, e al fatto che iniziamo questo arco con “il libro di Kevin” e lo chiudiamo con “il libro di Nora”. È una serie difficile, criptica, degna erede di quella angoscia esistenziale che ha caratterizzato già Lost. E non è stata da meno nella stagione conclusiva, con puntate indimenticabili come “Crazy Whitefella Thinking” (3.03), come “It’s a Matt, Matt, Matt, Matt World” (si veda qui, e su cui si potrebbe innestare tutta una riflessione su autorialità e critica) o come l’apocalittica “The Most Powerful Man in the World (And His Identical Twin Brother)”, risposta-prosieguo alla celebrata puntata “International Assassin” (2.08). Il cast è superbo, anche quando è costretto ad autentici tour de force.

È un elusivo vangelo quello che mettono in scena Damon Lindelof e Tom Perrotta. Doloroso e poetico, che va vissuto più che analizzato. È arte. 

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