mercoledì 19 luglio 2017

TREDICI: le ragioni di un suicidio


ATTENZIONE SPOILER. In 13 reasons why (su Netflix, graficamente scritto come “Th1rteen R3asons Why”), diventato semplicemente Tredici in italiano, Hannah Baker (Katherine Langford) è un’adolescente che si è appena tolta la vita. Dietro di sé ha lasciato, con un gusto un po' retrò, una serie di audiocassette da lei registrate, in cui ad ogni lato del nastro accusa per la sua scelta un diverso compagno di scuola. A turno le persone vengono istruite ad ascoltare quello che lei ha detto, seguendo anche una mappa e, dopo aver sentito tutto, a passare i nastri alla persona successiva. Ora è il turno – e attraverso di lui il nostro - di Clay Jensen (Dylan Minnette), l’undicesimo, che lavorava con lei come maschera in un cinema e che era innamorato di lei. La cosa lo sconvolge e ascolta tutto in piccole dosi, fra titubanze, desiderio di parlarne con altri,  dubbi su come decidere di comportarsi. A sostenerlo c’è l’amico Tony (Christian Navarro). Hannah dice la verità? Mente? Ogni puntata è dedicata a una diversa persona della sua vita: Justin Foley (Brandon Flynn), con cui ha vissuto il suo primo bacio e che poi ha diffuso pettegolezzi sessuali sul suo conto (1.01); i migliori amici con cui si incontrava regolarmente al coffee shop Monet’s e dalla quale si è sentita tradita, Jessica Davis (Alisha Boe) e Alex Standall (Miles Heizer, Parenthood) – 1.02 e 1.03; Tyler (Devin Driud) il fotografo dell’annuario scolastico che le faceva stalking (1.04); Courtney (Michele Selene Ang), la ragazza apparentemente sempre gentile che ha sparlato di lei pur di non rivelare di essere lesbica (1.05); Bryce Walker (Justin Prentice) che l’ha violentata (1.12)... Intanto i genitori di lei, Olivia e Andy (Kate Walsh e Brian D’Arcy James), che non hanno nemmeno ricevuto un biglietto d’addio, disperati, fanno causa alla scuola, perché hanno ragione di credere che la figlia fosse vittima di bullismo. Tutti si chiedono quanto conoscessero la ragazza.

Tratta dal libro per giovani adulti “Tredici” di Jay Asher (Mondadori), e sviluppata per la TV da Brian Yorkey (che nel 2010 come drammaturgo ha vinto il Pulitzer), la serie prima facie parla di suicidio. Ed è indubbio che questo sia uno dei temi trattati. Il liceo frequentato dalla ragazza è sconvolto dall’evento, gli studenti vengono incoraggiati a parlare dell'argomento e genitori, insegnanti e studenti lo affrontano in più occasioni e in più modalità. La serie però, di fatto, affronta altre tematiche. Una è quella della banalità delle azioni quotidiane e di come possono portare delle cicatrici profonde per qualcuno che è vulnerabile. Di come le micro-aggressioni giornaliere, se non gestite, possano diventare qualcosa di mastodontico. Del potere dei segreti, dei pettegolezzi, delle parole. Hannah aveva apparentemente una vita normale, senza particolari problemi, sono proprio questi piccoli atti che si accumulano l'uno sull'altro ad averla distrutta. Non è colpa di nessuno ed è colpa di tutti. E si è trovata isolata.

Il tema di fondo è lo stupro, sono le violenze e le molestie verbali e sessuali.  Anna Silman (The Cut) dice bene quando osserva che “il messaggio che il programma riesce davvero a trasmettere ha a che fare con la misoginia: come la persistente oggettificazione può erodere l’autostima di una donna, e dei molti modi in cui falliamo nei confronti delle giovani donne nel propagandare una cultura del silenzio. (…) Il programma prende molti dei termini di moda che in questo momento turbinano nello spirito del tempo della cultura giovanile americana – mascolinità tossica, cultura dello stupro, far impazzire qualcuno, cyber bullismo, slut-shaming – e mostra come sono messi in scena nei corridoi della scuola, perpetrati da una gamma di complicati teen-ager che trascendono gli usuali archetipi da spogliatoio”. Viene ben illustrato come il peso dello status e del potere di qualcuno può avere effetto sugli altri e di come la “passività individuale e la negazione di gruppo” possa offrire protezione a predatori e facilitatori.  

Nonostante qualche voce fuori dal coro, la maggioranza ha amato e apprezzato la serie. Uno degli aspetti più interessanti per me è come si passi di continuo fra il momento attuale e i ricordi di cose avvenute nel passato quando la protagonista era in vita. Questo avviene costantemente, ma l’aspetto originale è il fatto che i ricordi nascano da una sorta di straniamento del protagonista maschile che forzatamente e dolorosamente rievoca situazioni del passato, che vede in una nuova luce, o che vorrebbe anche dimenticare o che vorrebbe aver vissuto in modo diverso. Questa tecnica apparentemente trita di costanti flashback è proprio resa fresca da questa associazione di recupero della memoria da parte del personaggio. E il senso di perdita è proprio stato costruito su questa modalità apparentemente ingenua. Hannah poi, come narratrice inaffidabile, riesce a trasmettere bene il processo di soggettivizzazione delle esperienze. E trasporta lo spettatore in un percorso di empatia più che di conoscenza (Silman).  

C’è chi ha lamentato il fatto che la serie renderebbe affascinante il suicidio. Non mi sembra proprio. Al di là dell’opportunità di avvertire il pubblico del tipo di contenuto che si sta per affrontare, e dei riferimenti a cui rivolgersi se si stesse pensando di farla finita, aggiunti poi da Netflix in apertura delle puntate e sicuramente essenziali, si fa un ottimo lavoro nel focalizzare la conversazione su un tema che storicamente è sempre stato molto difficile affrontare proprio per timori di emulazioni. L’obiettivo qui è proprio quello di non nascondere la testa sotto la sabbia e far finta che il problema non esista, quando invece è così rilevante. Se legittimamente si potrebbe impedirne la visione a un pubblico eccessivamente giovane, penso che sarebbe proprio uno di quei programmi che andrebbero guardati a scuola e discussi, con insegnanti e genitori.  

Anche la resistenza di alcuni per una seconda stagione, già confermata, motivata dal fatto che la serie avrebbe già detto tutto quello che c’era da dire, non la condivido. Potenzialmente c’è ancora molto terreno inesplorato. 

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