venerdì 1 settembre 2017

AMERICAN GODS: un'allegoria


Tratta dall’omonimo romanzo di Neil Gaiman, e sviluppata per la TV da Bryan Fuller (Pushing Daisies, Hannibal) e Michael Green (Kings), American Gods (del canale Starz) immagina un’America contemporanea in cui gli dei tradizionali che sono stati oggetti di culto nel corso della storia hanno ormai poca fortuna - sono stati quasi dimenticati e sono tenuti in vita, alimentati dalla fede, da pochi credenti arrivati nel nuovo mondo come immigrati -, e si scontrano con nuovi dei, che vivono di attenzione da parte dei nuovi “devoti”.

Shadow Moon (Ricky Whittle, Lincoln in The 100), dopo aver scontato tre anni di prigione per una rapina in un casinò, viene rilasciato di prigione qualche giorno prima a causa della prematura morte della moglie Laura (Emily Browining). Sulla via del ritorno incontra un trasandato imbroglione con un occhio di vetro, Mr Wednesday (Ian McShane, Kings, Deadwood), in realtà il dio Odino - in danese, norvegese e svedese la parola “mercoledì”, “Wednesday” in inglese, si dice Onsdag, che significa giorno di Odino, e leggenda vuole che questa divinità abbia sacrificato il proprio occhio sinistro per poter bere dal Pozzo della Saggezza. Mr Wednesday assume Shadow come guardia del corpo  e si mette con lui in viaggio  – la prima stagione è in buona parte una storia on the road – con il proposito di reclutare altri vecchi dei per una guerra contro i nuovi, resi potenti da una cultura ossessionata dalla tecnologia e dalle celebrità: Mr World (Crispin Glover), dio della globalizzazione;  Media (Gillian Anderson), che ha fattezze ogni volta diverse  come ad esempio quelle di Lucille Ball, David Bowie o Marylin Monroe; Technical Boy (Bruce Langley), giovanissimo strafottente irascibile padrone di Internet. Shadow non comprende subito quello che accade intorno a lui e presto si ritrova a fare i conti con la moglie Laura tornata in vita (beh, più o meno), ma che lui sa averlo tradito prima di morire. Una presenza nelle loro vite è anche Mad Sweeney (Pablo Schreiber, Orange is the New Black), un leprecauno.  (Per una chiara e approfondita guida agli dei si veda questo articolo in inglese).

La storia si basa sull’idea che sono i credenti a dare potere a un dio. Credere è vedere, siamo fatti di ciò in cui crediamo e il paradiso che ottieni nell’aldilà è quello in cui credi in vita. Banale e fantastico si incontrano e scontrano in una serie che è un’esplorazione di argomenti pregnanti e di gran risonanza nel momento attuale. Una delle colonne tematiche portanti è quella sull’immigrazione, anche grazie a numerosi racconti che intersecano la narrazione principale e fanno vedere come antichi credenti siano arrivati sulle sponde del nuovo continente: esploratori, schiavi, commercianti, gente di ogni estrazione. L’amore è un altro nucleo di riflessione, in una società che vive ansietà esistenziali, è in cerca di identità ed è, ontologicamente, multietnica – con un casting che riflette questa realtà. La fede, giocoforza, è centrale nella meditazione speculativa: che cos’è, che cosa la tiene in vita, che senso e potere ha, quali valori sostiene e che evoluzione ha avuto. A questo proposito memorabile è l’incontro (1.10) con la dea Ostara (Kristin Chenoweth, Pushing Daisies), ovvero la Pasqua (Easter in inglese, derivato proprio da Ostara), che riflette, anche con umorismo, sulla rielaborazione, sopravvivenza e convivenza di miti e credenze, con numerose varianti di Gesù Cristo che condividono la propria giornata di resurrezione con il compleanno della dea di saltellanti coniglietti, uova di colori pastello e vitalità del tripudio primaverile. Fondante è pure il potere del racconto e della narrazione, della tessitura in tutti i sensi: Ibis/Thoth (Damore Barnes), dio egizio scrivano degli dei è il primo che incontriamo; Anansi (Orlando Jones), figura ghanese della tradizione ashanti, come un ragno, attraversa l’Atlantico su una nave di schiavi alla fine del Seicento...

Noir, mitologia, realismo magico, surrealismo pulp, etnografia, violenza, misticismo, favola…la serie, fortemente allegorica, è tutto questo, ed è spesso uno spettacolo visivo, visionaria nello stile che è proprio di Fuller, qui virato a toni piuttosto dark.

Ci sono scene memorabili, come quella di sesso gay fra due musulmani, Salim (Omid Abtahi) e Jinn (Mousa Kraish), o come quella della storica dea dell’amore e del sesso Bilquis (la nigeriana Yetide Badaki), regina di Saba, che al culmine del rapporto sessuale divora il proprio amante-devoto attraverso la vagina. Come indimenticabile e azzeccatissima è la sigla d’apertura che stratifica uno sull’altro, con colori saturi e luci al neon, una serie di simboli delle varie religioni che formano un enorme totem, il segno nativo di religiosità per eccellenza, trasformandolo in un emblema di sincretismo e in un significante della parabola a cui assistiamo. E se delle pillole fluttuano sullo schermo pensiamo contemporaneamente alla religione come oppio dei popoli, ma anche alla medicina come religione. I rimandi sono molti.

La lotta degli dei per rimanere rilevanti è appena cominciata. La prima per la serie è stata già vinta dato che è stata confermata per una seconda stagione.

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