lunedì 12 febbraio 2018

THE DEUCE: una serie sociologica sulla nascita dei porno


Ha un taglio che potremmo definire sociologico The Deuce, la nuova serie firmata da David Simon, già celebrato autore di quella che è considerata una delle opere più riuscite nella storia del piccolo schermo, The Wire, e George Pelecanos che con Simon ha collaborato sia a The Wire che a Treme. Qui siamo negli anni ’70, a New York, intorno a Times Squadre  -  il titolo è il nomignolo dato alla 42esima strada, fra la sesta e la ottava avenue – e si guarda alla prostituzione e allo sviluppo dell’industria pornografica in quagli anni – indicativamente il sottotitolo italiano è diventato “La via del porno” – e le connessioni con la vita notturna, la mala, l’attività della polizia, l’indifferenza o la connivenza e la corruzione delle istituzioni… Secondo la più classica cifra estetica di Simon ci sono molti personaggi, spesso nemmeno collegati fra loro, e solo alcuni, specie inizialmente, ricevono sufficiente attenzione da costruire una connessione autentica con lo spettatore, la trama è in apparenza quasi assente, ma un luogo e un mondo emergono con vigore attraverso l’accostamento e la sovrapposizione di molti elementi minuti, quotidiani, prima facie banali.
     
I fili delle vite di molte persone si intrecciano in trame e orditi che tessono un quadro via via più dettagliato: Vincent e Frankie Marino (James Franco), due fratelli gemelli, il primo abile gestore di un bar, il secondo un perdigiorno giocatore d’azzardo pieno di debiti con le persone sbagliate, vengono assoldati dal boss mafioso locale, Rudy Pipilo (Michael Rispoli) che propone loro di espandersi aprendo anche locali di massaggi, in realtà case chiuse, alla cui gestione di offre il cognato di Vincent, Bobby (Chris Bauer), con un passato di costruttore edile. Vincent, che è sposato con due figli, ma è di fatto separato dalla moglie, frequenta occasionalmente Abigail ‘Abby’ Parker (Margarita Levieva), che lascia gli studi universitari per lavorare da lui al bar, insieme anche a Paul Hendrickson (Chris Coy), giovane gay che aspira ad aprire un locale tutto suo per una clientela LGBT. Per la strada, Eileen ‘Candy’ Merrell (Maggie Gyllenhaal, The Honorable Woman, che è anche produttrice esecutiva), con un figlio cresciuto dalla madre che va a trovare di tanto in tanto, lavora per contro proprio e vede nell’emergente industria della pornografia una via di uscita a una professione che troppo facilmente la lascia piena di lividi. Comincia ad affiancare il regista Harvey Wasserman (David Krumholtz), che la prende in simpatia e la introduce progressivamente negli ingranaggi della produzione. La gran parte delle sue colleghe si affida a protettori più o meno brutali: C.C. (Gary Carr), che ha come sua prostituta fissa Ashley (Jamie Neumann), sempre meno interessata a lavorare, e recluta presto Lori (Emily Meade), una neoarrivata che proviene dal Minnesota; Larry Brown (Gbenga Akinnagbe), che ha nella sua scuderia Loretta, Barbara e Darlene (Dominique Fishback), che al paese dove viveva dice di aver sfondato come modella e che passa tutto il tempo libero a leggere e ha fra i suoi clienti un anziano che la paga per guardare vecchi film con lui; Rodney (Method Man); Reggie (Taruq Trotter)… La giornalista Sandra Washington (Natalie Paul) vorrebbe fare un pezzo sulla fitta rete che tiene in equilibrio il sistema, e per questo chiede l’aiuto dell’agente Chris Alston (Lawrence Gilliard jr) che è però più interessato ad avere una storia con lei che ad essere la sua fonte.

“Il santo vero mai non tradir”, per usare una citazione manzoniana, è la vocazione essenziale di Simon, e le rimane fedele anche in questo contesto. Il suo passato di reporter per il Baltimore Sun perspira in un approccio che punta quasi a dare apparentemente solo una registrazione dei fatti. La scrittura, sismografo di un eterno presente, è quasi trasparente, nasconde i propri artifici narrativi. Realizzato con la finezza di cui è capace, ha una forza sbalorditiva e penetrante. Uno dei rari momenti in cui questo non è riuscito è stato per me nell’episodio “My name is Ruby” (1.08) e questo perché, nel momento in cui si vede Candy salutare Ruby “Cosce Tuonanti” (Pernell Walker) da distante dall’interno di un taxi, senza essere sentita, si capisce troppo in anticipo quale sarà la sorte di quella passeggiatrice. L’evento finale è troppo telefonato. Quella vicenda però ha altri pregi. Non di meno, infatti, il personaggio di Ruby è mirabile sotto molti aspetti – per quello che dice del corpo femminile, del desiderio, della sessualità e dell’identità – e la sua fine mette il dito sull’indifferenza, come testimonia una successiva scena fra Vincent ed Abby che la riguarda, e sulla sopravvivenza.

Si evita qualunque sensazionalismo, e il tema pruriginoso non è mai utilizzato per titillare, ma piuttosto per indagare le narrative su sesso, potere, violenza, e su come si integrano. Il sesso è una delle merci della macchina economica. Richard Price, produttore esecutivo, la descrive come una serie storica il cui senso è quello di capire come quella realtà si sia metastatizzata e che cosa ci dica sul presente. Se essere lì da giovani a quell’epoca era come cercare di comprendere l’oceano guardandone la superficie standosene sulla spiaggia, quello che viene messo sullo schermo è l’equivalente di indossare una maschera da sub. E se da ventenne “non hai un cervello, hai un organo”, nella sua esperienza, ora “Vai giù fino alle placche tettoniche, l’economia, le interazioni. Pensi alla roba sessuale come a un business. Per cui guardando a un peep show, dove va a finire quel quarto di dollaro se lo segui? Lì c’è una ragazza, e sei intimidito ed eccitato. Ma chi è quella ragazza, dove va, che cosa trova a casa?” (Newsweek)
    
Nell’epoca dei Trump e degli Weinstein, la serie dà un’opportunità di riflettere sulla misoginia e lo sfruttamento, e sul rapporto anche fra il potere e la consapevolezza. Chi ha la seconda non necessariamente ha la prima, e non è in grado di operare i cambiamenti che vorrebbe solo sulla base di quella coscienza: lo si vede nella giornalista Sandra, il cui exposé sulla corruzione del sistema, è sgonfiato di valore nel momento in cui non può pubblicarlo come vorrebbe, lo si vede in Candy e nel rapporto con la pornografia, al contempo degradante ed empowering, in Darlene… E si portano alla luce i determinanti del potere, con scelte e compromessi.

La visione è artisticamente riuscita, anche perché è epidermicamente sgradevole nel trasmettere il senso di squallore e sudiciume, di violenza espressa o incombente, ma non per questo rinuncia ad andare al cuore dell’umanità dei personaggi, e riesce a dissezionare oggettificazione e mercificazione del corpo femminile senza diventare a sua volta oggettificante e mercificante, evitando quello che gli autori chiamano il “tableaux pornografico” (Fresh Air). Quello che si vede è triste e illuminante ma, a dispetto del sesso, di certo non è sexy. 

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